Le aziende del fashion usano i social per venderti vestiti: scopri come

Digital trend nel fashion retail: dall’interazione all’acquisto

Negli ultimi tempi, è diventato evidente a chiunque utilizzi i social network che i brand di moda siano sempre più presenti e in maniera molto attiva su questi canali. Ma con quali scopi le grandi e piccole marche del fashion retail gestiscono i loro account social? Quali sono i trend in atto?

Abbiamo voluto fare una veloce ricerca per aggiornarci e per trovare qualche esempio recente che ci dia indicazione su come muoverci online con i nostri clienti. In particolare, ci siamo chiesti quali possano essere le strategie che si possono realizzare per convertire l’engagement dell’utente in intenzione di acquisto. Ecco quello che abbiamo scoperto.

Pinterest

Questo social network sta definitivamente cambiando la metodologia di acquisto online dei consumatori. L’elemento fondamentale per capire l’importanza di Pinterest nel retail, e nel fashion retail soprattutto, è la differenza tra search e discovery. Quando cerchiamo qualcosa, infatti, abbiamo più o meno già in mente che cosa ci serve e ci limitiamo a utilizzare il web per trovare quel prodotto al miglior prezzo o nella variabile che più ci piace. Quando invece stiamo scoprendo qualcosa, non si tratta quasi mai di un prodotto di cui eravamo alla ricerca in maniera specifica, ma piuttosto di un oggetto che ci colpisce per la sua bellezza e unicità in mezzo ad altri oggetti interessanti. Ecco, Pinterest ha categorizzato questo processo di scoperta dei prodotti, soprattutto dei prodotti “belli”, in grado di colpire visivamente l’osservatore.

Non stupisce, quindi, che Pinterest si configuri come il social network della moda per eccellenza, per lo meno quando lo si analizza da un punto di vista delle vendite. Nel 2013, infatti, Pinterest ha superato tutte le altre piattaforme nella media degli acquisti da social referral (fonte Monetate).

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A differenza di Instagram, Pinterest riesce a convertire in valore economico i pin degli utenti: nello specifico, secondo quanto esposto recentemente dal Washington Post1 pin equivale a 0,78 $.

Di conseguenza, questo social network si sta configurando oggi come uno strumento sempre più imprescindibile per i retail di moda che vogliano ottenere awareness e convertire l’engagement in vendite. Al punto che le aziende stanno cominciando a strutturare i propri e-commerce e gli stessi negozi sulla base dei pin ottenuti.

Un esempio su tutti è Nordstrom, che organizza parte dello shop online con i top pinned in evidenza, curando settimanalmente la sezione chiamata Pinspiration. Gli stessi prodotti in vendita a scaffale nei negozi contengono le segnalazioni dei pin ricevuti.

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Per assecondare il più possibile il collegamento tra le board degli utenti e i carrelli degli e-commerce, Pinterest mette a disposizione delle aziende alcuni strumenti specifici. A cominciare dall’ormai più che conosciuto Pin it Button e dagli analytics, cui si aggiungono i rich pin di prodotto, che includono il prezzo aggiornato, la disponibilità e il punto vendita in cui trovare l’oggetto che si sta pinnando.

Inoltre, il social network ha messo in sperimentazione i promoted pin ed esiste già una partnership con Zappos e Walmart per sfruttare il now-trending-tool che permette di utilizzare i dati di Pinterest in real time. Per il futuro, il social network promette di espandere le proprie API per fornire una maggiore quantità di dati per una loro successiva elaborazione in ottica di business.

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Un esempio recente e significativo di integrazione del sistema di valutazione tramite pin degli utenti con l’e-commerce di un fashion retailer è Awesome shop di Target.

Dopo aver registrato un aumento del 70% del traffico al proprio sito nelle sei settimane successive all’introduzione dei rich pin (fonte Cnbc), l’azienda ha lanciato un mini-sito dedicato alle “cool stuff everyone is talking about”. Ovvero un database con i prodotti del brand che hanno ricevuto il più alto numero di pin degli utenti e il numero massimo di stelle nelle review di Target: una sorta di lista degli oggetti più belli, curata direttamente dal pubblico. Il sito è navigabile per categoria e la selezione di un prodotto rimanda all’e-commerce di Target per l’acquisto. In pratica, gli utenti scelgono cosa comprare tra i prodotti di Target che altri utenti hanno selezionato per loro – è la forma più alta del cosiddetto “trusted word-of-mouth” ed è una garanzia di successo.

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Un altro esempio interessante di integrazione di Pinterest online e in store è quello della campagna “Dear Topshop” che l’azienda ha realizzato per la stagione di shopping natalizio.

Pinterest è protagonista a cominciare dalla home page del sito di Topshop, in cui i prodotti sono ordinati secondo il numero di pin ricevuti. Dopo aver navigato il sito utilizzando le tre categorie disponibili (A gift that will wow, All things that sparkle, A bit of romance), gli utenti possono pinnare i prodotti e condividerli nei propri canali social con l’hashtag #deartopshop.

In una campagna che lega fortemente l’online ai punti vendita, i prodotti più pinnati sono segnalati anche in store, mentre nei due flagship di Londra e New York alcuni touch screen giganti permettono ai clienti di aggiornare continuamente le board e continuare a pinnare, condividere e comprare i prodotti Topshop in diretta. È stato detto che “it was all about Pinterest for Tophop this season” e la definizione sembra sicuramente adatta!

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Instagram

Parlando di social network e di brand di moda, quella tra Pinterest e Instagram è sicuramente una bella gara. I dati di Socialfresh sull’ultima Fashion Week a New York parlano di oltre 2,5 milioni di interazioni  sull’hashtag #NYFW (tra foto scattate, like e commenti) in soli 8 giorni: non è difficile capire come Instagram sia diventato il social per il fashion retail!

Quasi non esiste più brand che non sia presente su questa piattaforma con la sua dose giornaliera di contenuti di backstage, di nuove collezioni e di dirette dalla passerella – e se ci fosse ancora un brand assente all’appello, il consiglio sarebbe di correre ad aprire subito un account, perché “if a company has a visual product to sell and it’s currently not on Instagram, that company is missing out on significant brand awareness and revenue” (l’ha detto Dan Atkinson, CEO di SumAll).

Instagram per il fashion retail significa soprattutto engagement a livelli fino a 15 volte superiori a quelli di Facebook, ma l’impossibilità di usare link e di sfruttare il click through rende difficile misurare l’effettivo ritorno economico di queste interazioni, per quanto sia evidente il livello molto alto che possono raggiungere.

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L’unico tool offerto da Instagram che possiamo prendere in considerazione ai fini di questa ricerca è Instagram Direct, il servizio di messaggistica privata che permette di inviare immagini e video in chat con un gruppo ristretto di interlocutori (massimo 15 persone per conversazione).

Quali sono le potenzialità offerte da questo strumento? Un primo utilizzo di Instagram Direct è quello che è stato proposto da GAP a solo due ore dal lancio del servizio, ovvero l’organizzazione di photo contest ristretti a pochi partecipanti. Il brand ha fatto una call to action aperta a tutti i follower in una foto pubblicata nel proprio profilo Instagram, ma solo i primi 15 che l’avessero commentata avrebbero potuto partecipare al #WIWT contest. In palio una custodia per tablet, ma, soprattutto, la creazione di un sistema di rewarding dei propri fan che non ha pari.

Allo stesso modo e con la stessa velocità, anche Michael Kors ha dimostrato di saper cogliere le potenzialità offerte dallo strumento per stabilire una forma di premiazione dei propri “super users”: i primi 50 a pubblicare una foto con hashtag #MKDirect avrebbero ricevuto un messaggio personale ed esclusivo il giorno successivo.

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Lo strumento si offre bene anche ad altri utilizzi, dal customer service all’invio di coupon. In quest’ultimo caso, è evidente come Instagram possa a tutti gli effetti trasformare direttamente l’engagement in intenzione di acquisto.

A giudicare dalle tendenze online, credo che il consumatore che visiterà un negozio o lo shop online di un brand che ha utilizzato Instagram Direct per inviargli un coupon sconto a seguito di un contest o di una call to action sarà anche e prima di tutto un fan soddisfatto, che si sente premiato per la sua fedeltà e che si sarà conquistato quello sconto grazie alla propria volontà di partecipare alla vita del brand.

Instagram, in questo modo, sta riuscendo ad alzare l’asticella dell’engagement ancora più in alto rispetto a tutti gli altri social network e mantiene il proprio primato come strumento in grado di creare fidelizzazione e awareness più di qualsiasi altro.

Twitter

Se c’è un social network che permette di monetizzare in tempi brevissimi e su scala globale questo è Twitter. Lo ha dimostrato recentemente American Apparel, che ha presentato un case study dall’eloquente titolo “How American Apparel makes $50,000 in one hour on Twitter”.

L’intervista a Ryan Holiday, direttore marketing del brand, esamina molto bene le potenzialità offerte da Twitter, lo strumento più veloce e immediato per comunicare con i fan e per premiarli. Come? Ad esempio, con flash sales che durano un lasso di tempo molto ristretto – anche solo un’ora – durante il quale vengono twittati un link all’e-commerce e un codice sconto da inserire.

Non sarà l’idea più originale del secolo, ma è un’idea che funziona. Si basa, come Instagram Direct, su un concetto di fondo di esclusività: solo chi è online in quel preciso momento ha diritto alla promozione e per questo si sentirà “speciale”. Allo stesso modo, il tempo limitato fa leva pesantemente sulla psiche dei consumatori portandoli al più classico degli acquisti d’impulso.

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Twitter permette anche di creare dinamiche particolari di RT che aumentano esponenzialmente il reach di una campagna, per quanto limitata nel tempo possa essere. Inoltre, l’utilizzo intelligente degli hashtag tematici consente di collegare bene online e offline (ad esempio, American Apparel l’ha fatto ad Halloween, incorporando l’hashtag #AAHalloween su tutti i contenuti del brand, dalle vetrine dei negozi ai print avd, creando un effetto di rimbalzo delle conversazioni).

Snapchat

Se il principio che rende i flash sales su Twitter un successo garantito è la limitata durata dell’offerta nel tempo, Snapchat è in grado di spingere questo concetto al limite massimo, riducendo la finestra di offerta a soli 10 secondi.

Questa app di messaggistica istantanea è stata scoperta anche dal mondo della moda, che la utilizza principalmente per inviare ai fan contenuti esclusivi di dietro le quinte, dagli sneak peek delle nuove collezioni alla diretta dalle passerelle. Ma un utilizzo alternativo e ad alto potenziale di Snapchat per il fashion retail è sicuramente l’invio di coupon ed è quello che sta facendo il brand americano Karmaloop.

In sostanza, si tratta di una gamification estrema del concetto di couponing che si adatta perfettamente al target di questo social network, ovvero ragazzi di giovane età che interpretano come una sfida l’offerta che dura solo 10 secondi di un coupon a cui fare uno screenshot al volo. Grazie a questa strategia, Karmaloop sta ottenendo un incredibile successo ed è riuscito a raddoppiare i propri follower.

Chissà che non possa essere una buona strada da seguire per tutti i marchi di streetwear che si rivolgono a un pubblico più giovane.

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 Jelly

Rimanendo in tema di social network di nuovissima generazione, vale la pena di dare un’occhiata anche a Jelly, l’app lanciata a gennaio 2014 per chiedere cose e ottenere le relative risposte attraverso Twitter e Facebook, grazie all’aiuto dei propri amici e di chi utilizza la stessa applicazione. La possibilità di fare domande e dare risposte in merito una fotografia rappresenta un terreno ancora inesplorato ma ad alto potenziale per i brand di moda.

Cosa succederebbe se un marchio fashion iniziasse un dialogo con i propri fan, chiedendo, ad esempio, con cosa si abbinerebbe meglio la tale maglia? E se il brand addirittura riuscisse a inserirsi nelle conversazioni già esistenti tra gli utenti per rispondere alle loro domande?

Il ritorno in termini di awareness e di reputation sarebbe altissimo. Allo stesso modo, Jelly potrebbe diventare un ottimo canale per fare innovazione di prodotto, sfruttando la community come una sorta di focus group ampliato all’ennesima potenza.

Per il momento sono ancora pochi i brand di moda che hanno abbracciato questo nuovo social network, ma le potenzialità ci sono tutte e siamo ansiosi di scoprire quali sorprese ci riserverà Jelly.

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In conclusione

Quando si parla di digital trend per il fashion retail, engagement è la parola da mettere ancora e sempre al primo posto. Gli utenti vogliono sempre più partecipare in prima persona alla creazione dei contenuti di cui usufruiscono e le aziende devono tenere conto di questa necessità nel costruire un dialogo con i propri fan.

Siamo tutti curatori nei confronti degli oggetti che ci circondano e vogliamo, anzi, quasi dobbiamo esprimere il nostro giudizio su quello che vediamo e che compriamo. Il nostro è un giudizio in grado di influenzare il comportamento di altri che condividono la stessa rete e il word-of-mouth è diventato il canale di comunicazione preferenziale.

Gamification, senso della sfida, tempi limitati e esclusività: si tratta di leve potenti su cui si può fare forza per lanciare un’attività di couponing o di flash sale che miri, sì, a portare i clienti all’acquisto, ma anche a divertirli e a farli sentire speciali.

Big, Fast, Feelings: dalla Cina col Terrone

I principali trend digitali in Cina, raccontati da (quel pugliese di) @pietro_colella 🙂

Il mondo digitale è in continua evoluzione, ma, nonostante i numerosi strumenti che giornalmente abbiamo sotto mano per essere aggiornati, non riusciamo sempre a tenere tutto sott’occhio. In questo articolo sono raccolti alcuni dati e case history che riguardano la Cina e due sono i trend che attualmente ritengo molto interessanti: i social network e gli e-commerce.

Vincos ogni anno pubblica la sua mappa mondiale sullo stato dei social network e in questa gif animata si notano due elementi interessanti. In Cina, Giappone e Korea, Facebook non è mai arrivato, i social più utilizzati sono QQ e Seina Weibo. In Russia, invece, Facebook esiste ma gli utenti preferiscono utilizzare vKontakte, sul quale possono condividere facilmente file protetti da copyright.

Per quanto riguarda gli e-commerce, ATKearney ha realizzato una clusterizzazione dei mercati mondiali online, mettendo in relazione la crescita potenziale e il comportamento del consumatore online (inteso come propensione e familiarità con gli acquisti online).

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Next generation markets: sono mercati ad alto potenziale di crescita, gli utenti hanno un comportamento meno favorevole all’acquisto online e un basso tasso di adozione della tecnologia;
Estabilished and growing: si tratta di mercati in cui il numero di transazioni online è molto consolidato (ma comunque in crescita), internet ha una penetrazione elevata e gli acquisti online sono una routine. I paesi con i tassi di acquisto on-line più bassi come l’Australia, il Canada e gli Stati Uniti hanno prospettive di crescita maggiori rispetto a quelli con tassi più elevati;
DNA Digitale: in questi mercati ci sono ancora molte opportunità per i grandi player, i consumatori acquistano stabilmente online e hanno un tasso di adozione della tecnologia elevato, esistono infrastrutture avanzate e le azioni cross channel sono molto efficaci. I siti web sofisticati, le esperienze online approfondite e un efficace sistema di consegna  sono importanti fattori di crescita. I leader di mercato continueranno a investire in tecnologie di interfaccia e funzionalità di back-end per differenziare le loro offerte.

All’interno di questo grande contesto mondiale, la Cina è sicuramente il paese che sta attirando l’attenzione di molti brand. Secondo me, ci sono 3 keyword che possono identificare questo paese: Big, Fast, Feelings.

Big…

…perchè sono cinquecentotredicimilioni gli utenti cinesi online; per raggiungere questa cifra bisogna sommare la popolazione online di Stati Uniti (316 milioni), Regno Unito (63), Francia (65) e Germania (80). Per avere un confronto numerico più vicino a noi, in Italia gli utenti connessi da PC nel mese di Gennaio 2013 sono stati 27 milioni, ovvero solo il 5% dei cinesi – fonte Audiweb.

Fast…

… perché la Cina cresce a ritmi forsennati! Presentazione

In Cina, nascono e crescono molto rapidamente alcune piattaforme parallele a quelle “occidentali”. Vi segnalo alcuni dati importanti che evidenziano le tendenze in atto:

  • I cinesi trascorrono più di tre ore al giorno online, a differenza dei koreani che utilizzano meno la rete (fonte);
  • Gli e-commerce attualmente hanno un giro da 64 miliardi che nei prossimi 5 anni arriverà a 271;
  • 460 milioni di utenti accedono giornalmente da mobile, tanto da rendere tale tecnologia il primo punto di accesso alla rete;

  • Le Online TV sono in forte crescita, in termini di accessi e di spesa media degli utenti.

Ma partiamo dalle OTV: Sohu (azienda che fornisce servizi online di gaming, web tv e search) ha comprato tutti i diritti di “The voice of china”, che conta 10 milioni di ascoltatori. Tencent ha comprato “The song of China” e i Mondiali di Calcio 2014 in Brasile (fonte: Clickz.com). Quali implicazioni ci sono per i brand? La possibilità di una super targetizzazione dell’advertising, quindi una migliore gestione dell’efficacia dei budget, che sempre più verranno dirottati dai media tradizionali a quelli online.

La questione e-commerce, invece, è molto complessa. Come già detto in precedenza, in Cina gli utenti hanno poca familiarità con gli acquisti online, ma questa tendenza sembra stia scomparendo a favore di un aumento delle transazioni sugli e-commerce. Da una parte c’è una popolazione più anziana che per motivi sociali e culturali non ha accesso a internet e quindi non comprerebbe mai. Dall’altra parte c’è la nuova generazione, i giovani che settimanalmente effettuano acquisti online di ogni tipo, dall’abbigliamento all’oggettistica in generale.

Il brand asiatico più venduto online è L’Oreal Man Expert, che ha una penetrazione negli acquisti complessivi della popolazione del 5%. Ciò significa che i grandi player hanno ancora molta strada da fare per consolidare la propria posizione all’interno del mercato cinese. Per quanto riguarda il comportamento di acquisto dei consumatori, i dati dicono che l’80% dei cinesi si informa online, mentre il 66% scrive recensioni di prodotto. Gli utenti non vedono di buon occhio le azioni cross (offline – online) perchè le dinamiche non funzionano adeguatamente a causa delle scarse infrastrutture (troppe zone rurali, difficoltà negli spostamenti, sperequazione dei redditi). Dunque è meglio creare una netta separazione tra il canale online e quello offline.

Un altro aspetto da evidenziare riguarda il sistema di pagamento: i cinesi preferiscono il pagamento alla consegna. Questo per evitare che gli acquirenti ricevano prodotti scadenti e non in linea con quanto acquistato: pagare alla consegna è un segnale di qualità e di maggiore tranquillità. Con Alipay, un sistema molto simile a Paypal, è possibile comprare e vendere in assoluta sicurezza grazie al meccanismo di verifica della transazione. Al momento del pagamento, il sistema trattiene i soldi, non versandoli subito nel conto del venditore (al contrario di Paypal); una volta consegnato il prodotto, il cliente autorizza Alipay al trasferimento della somma solo dopo aver controllato che la merce sia conforme a quanto ordinato.

Le implicazioni per i brand sono notevoli, in quanto la sicurezza di ricevere prodotti originali fa crescere il numero delle transazioni. Crescono anche la fiducia nel brand e la fidelizzazione del consumatore, mentre la consegna a domicilio aumenta i punti di contatto e la possibilità di migliorare l’esperienza di consumo.

Feelings…

… perché la chiave di comunicazione per comunicare è quella dei sentimenti forti e più profondi dell’essere umano. Negli ultimi periodi, si assiste ad un aumento dell’utilizzo del mobile per creare un rapporto brand-consumatore stretto e confidenziale. Analizziamo alcuni casi di successo.

Burberry alla London Fashion Week 2014 di Londra ha realizzato un’azione diretta a tutti i cinesi presenti all’evento nella capitale inglese.

Scrivendo in privato al profilo ufficiale Burberry su We Chat era possibile ricevere contenuti in diretta dal backstage o dalla prima fila delle passerelle. Per alcuni utenti erano disponibili contenuti VIP esclusivi. Burberry ha creato un flusso di comunicazione 1-1 nel quale valorizzava il singolo utente con contenuti speciali, di alta qualità e a volte unici: immaginate quanto può essere eccitante per un utente ricevere un messaggio di questo tipo da Burberry. I cinesi vedono di buon occhio i brand che cercano di istituire un rapporto personalizzato e sono disposti a pagare un premium price per un prodotto iper custumizzato.

Ho anche piacevolmente scoperto che We Chat mette a disposizione delle sdk.

Harrods è il primo brand europeo che è andato su Seina Weibo: nel 2013 era l’account con più follower. Per intercettare il grande flusso di visitatori cinesi a Londra, è stata lanciata una campagna di Natale molto particolare. All’interno del centro commerciale, sono stati nascosti dei pacchetti regalo con il logo di Seina Weibo. I partecipanti, dopo aver scovato i pacchetti, dovevano scattare un foto e caricarla sul proprio profilo su Weibo. L’azienda ha poi estratto 3 vincitori ai quali ha regalato un orsetto di Harrods, una bottiglia di champagne Laurent-Pierrer e una borsa di pelle serigrafata con le iniziali dei loro nomi. La proclamazione è avvenuta direttamente online. La campagna era diretta a visitatori e residenti cinesi a Londra, ma anche a tutti i traveller-influencer, con l’obiettivo di generare awareness per tutti quelli che si spostano nel Regno Unito.

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British Airways ha oltre 350.000 fan su Seina Weibo e ha deciso di spostare la sua fanbase su We Chat per fare selling e customer service in real time. Il lancio effettivo dell’account su We Chat è stato realizzato inviando una busta ai primi utenti che già seguivano il brand. All’interno di ogni busta c’erano una lettera di auguri del CEO Tracy Dedman e un coupon promozionale di 50$ per l’acquisto di biglietti aerei. Cinque fortunati hanno trovato un biglietto d’oro che ha permesso loro di vincere un volo a/r per Londra. Solo nei primi 10 giorni l’account ha ottenuto oltre 10.000 follower.

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La British Airways ha portato la comunicazione ad un livello più personale e privato, con il quale è più semplice gestire tutte le sfaccettature del customer service, in particolare i punti a svantaggio dell’azienda. Inoltre, la comunicazione diretta con l’utente permette di realizzare azioni e promozioni personalizzate, aumentando così il valore percepito.

Pepsi ha lanciato una grande campagna – “Pepsi Bring Happiness Home” – per aiutare le famiglie in difficoltà che vivono in povertà e abitano nelle più sperdute zone rurali della Cina. Si tratta della prima iniziativa umanitaria di beneficenza sponsorizzata da un’azienda e non da un organizzazione no-profit o governativa. Pepsi ha utilizzato la rete distributiva di Tmall per raccogliere le donazioni e ha comunicato l’azione interamente su internet. È stato realizzato un sito per raccogliere le donazioni e per fare storytelling; sono anche stati girati alcuni miniclip con le più grandi star cinesi che invitavano la popolazione a partecipare all’iniziativa –  qui trovate il canale ufficiale su Youtube.

Pepsi, utilizzando We Chat, ha dato la possibilità ai suoi utenti di invitare amici e parenti a partecipare all’azione. Mandando un messaggio vocale all’account ufficiale, era possibile ricevere un clip con il remix della canzone ufficiale. Tutte le registrazioni sono state poi raccolte e alcune sono state pubblicate nella pagina Pepsi su Weibo. L’azienda ha realizzato un’azione molto strutturata in un Paese molto esteso e che presenta tante differenze in termini di cultura, redditi e stili di vita. La campagna è stata vista di buon occhio, considerando che i cinesi si sentono molto coinvolti quando la chiave di comunicazione sono sentimenti forti e molto profondi come la beneficenza, portare felicità e vivere sereni. In questo caso la componente mobile è stata utilizzata per ampliare la portata virale online.

Date Particolari

Soprattutto tra gli universitari, c’è una ricorrenza molto particolare: il Single Day. Così come da noi esiste San Faustino, il giorno dei single, anche in Cina viene celebrato il giorno degli scapoli nel quale i ragazzi si incontrano per cantare al Karaoke e socializzare. Si festeggia l’11 Novembre, data che contiene ben quattro volte il numero 1 e rappresenta quindi quattro single. Questa festa ha una portata economica di notevole impatto, basti pensare che Alibaba ha fatturato in un giorno 35 miliardi di yuan, pari a circa 6 miliardi di dollari (fonte: Bloomberg.com).

Un caso interessante è quello de “Lo Stile Di Vita“, un brand toscando di cosmesi che ha sfruttato il Single Day per aumentare le vendite dei suoi prodotti. Una premessa è doverosa: i cinesi sono molto attenti alla pulizia, da una ricerca condotta da Kantar World Panel  si evince che l’85% degli intervistati utilizza prodotti per la cura del corpo e questo li fa sentire meglio e più a loro agio tra la gente. Gli intervistati sono convinti che maggiore pulizia e igiene facciano avere più successo con le donne e sul posto di lavoro. I cinesi comprano ogni bimestre 7/8 categorie di prodotti per la cura del corpo. Dunque il mercato in esame presenta molte opportunità di ingresso e di crescita di quote di mercato.

LSDV aveva come obiettivo l’aumento della conoscenza del brand e delle qualità del prodotto, e ha stimolato gli utenti a testare il prodotto con un’offerta “prendi due paghi uno”. Sono state realizzate anche azioni di engagement, come regalare l’acquisto al primo ed all’ultimo cliente e un’estrazione per un buono spesa. Per comunicare la promozione, sono stati utilizzati i classici social (Seina Weibo e We Chat) ma anche Douban e alcuni forum. Sono stati registrati oltre 300 nuovi ordini, nello shop sono arrivati circa 150 nuovi utenti e la pagina LSDV su Taobao si è posizionata al tredicesimo posto su 450.000 shop online attivi.

Alcune osservazioni

In conclusione, pare che la Cina (come del resto tutto l’Oriente) stia vivendo un periodo di forsennata crescita, ma sembra anche che ci sia un utilizzo molto “rudimentale” degli strumenti. Dall’analisi delle connessioni causa/effetto, sembra i cinesi siano meno interessati alle dinamiche di engagement e alla struttura funzionale degli strumenti, quanto piuttosto al significato intrinseco delle azioni, al loro obiettivo più profondo. Tuttavia, i grandi player stanno iniziando a operare in maniera molto efficace, riuscendo a posizionarsi in modo da poter sfruttare ottimamente il trend di forte crescita di questo Paese. L’utilizzo della rete e del mobile appare molto radicato e questo permetterà, sicuramente, la realizzazione di tante azioni innovative e molto strutturate.

 

Brand aspirazionali, rap & fashion brand

“Our business is infested with idiots who try to impress by using pretentious jargon.”
David Ogilvy

Spesso la strategia di un fashion brand punta a costruire un marchio che sia il più possibile aspirazionale. Un marchio capace di farti pensare “Non potrò mai averlo, costa troppo per me!”.

Il sogno che ti viene proposto punterà dritto al tuo edonismo e ti fa intravedere una vita di: lusso, comodità e stili sopraffini.
Una vita che non hai, ma che sublimi grazie all’acquisto di una cintura in pelle con fibbia grossa, perchè alla fine “..lavoro sempre, uno sfizio posso anche togliermelo, o no?”.

Sullo stesso ring anche i rapper, la cui aspirazione più ricorrente – oggi – sembra essere: fare soldi e vivere nel lusso. Esattamente lo stesso sogno proposto dai brand aspirazionali.

Quando questi due sogni si scontrano nasce l’inferno di ogni brand manager: la volgarizzazione del marchio.

In altre parole quando pensi a Versace non ti ricordi più dei vestiti della casa di abbigliamento ma ti vengono in mente Migos, Drake, Meek Mill, Tyga o frah dei crookers. Peggio ancora, Riff Raff con Dolce & Gabbana. Immagini del tutto volgari e distanti da ogni evento legato al fashion, vedi ad esempio l’ultima Vogue Fashion Night Out 2013.

Dolce & Gabbana

Versace

Givenchy

Chanel
Chanel west coast

Gucci
gucci mane

Kreayshawn

Bello Figo (ex GucciBoy)

Se la passano meglio alcuni brand street/urban che da tempo condividono il proprio sogno con il proprio pubblico:

Adidas

Nike

extra:

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Un modello di #branding per il retail. Perdere o tenere il controllo?

Il ruolo del retail sta cambiando profondamente. Con la crescita a doppia cifra dell’ecommerce (vedi i dati Comscore) i clienti si abituano sempre di più a guardare i prodotti in store e acquistarli online.

Alcuni retailer (nomi come Zara, Bershka e Nespresso) iniziano a vendere online e consentire alle persone di ritirare il prodotto nel punto vendita fisico (lo store, quindi, come pick-up point).

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Altri, come Warby Parker (un produttore di occhiali fashion, low cost, che vende solo online) utilizzano gli store come luogo per provare il prodotto, in vista di un acquisto che avverrà online. Il punto vendita, quindi, come luogo per un’esperienza di prodotto, ma che non porta a una vendita immediata.

Entrambe queste soluzioni sconvolgono profondamente le logiche economiche del retail, che finora è stato il canale di vendita per eccellenza.

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In dieci anni, possiamo pensare che il ruolo (economico) del punto vendita sarà completamente stravolto, sia in termini di contribuzione al fatturato dell’azienda nel suo complesso, che in termini di funzione.

Come contribuisce il punto vendita alla costruzione dell’immagine del brand?

Il 2012, nel bene e nel male, è stato l’anno di Facebook e degli investimenti online.
La spesa in advertising online tende a crescere (supererà il cartaceo nel 2015) e ormai tutti i grandi brand hanno costruito una base di utenti ampia su Facebook (il 60% delle aziende Fortune 500 investe in Facebook e si notano già i primi segnali di maturità del mezzo).
Il funzionamento di Facebook è anche cambiato profondamente nel corso dell’ultimo anno: quello che, per le aziende, era un ottimo luogo dove fare conversazione sta diventando sempre di più simile a uno strumento di advertising tradizionale, con logiche e ritorni paragonabili ad altre forme di investimento online (su questo punto, Adage ha scritto cose interessanti).

Nel caso dei grandi brand, con pagine da milioni di fan, Facebook funziona molto bene per parlare ma poco bene per conversare. (questo perchè l’edgerank penalizza i contenuti che non sono sponsorizzati, e l’interfaccia di Facebook nasconde le conversazioni con gli utenti)
Invece, il piccolo negoziante di provincia riesce a usare Facebook per instaurare un rapporto diretto con i propri clienti: fa vendita, fa customer care e magari qualche contest. Spesso una pagina Facebook da poche centinaia di fan funziona meglio rispetto a una pagina enorme (in termini di reach e di engagement).

Questa attività contribuisce sicuramente alla costruzione del marchio: per il cliente, il brand si identifica spesso con lo store locale.

Nel retail e nel franchising ogni aspetto dello store è regolato e normato. Il franchisor decide, una volta per tutti, di che colore sono gli scaffali, che cioccolatini saranno nella ciotola, cosa ti dirà il commesso (“Vuole anche un gratta e vinci?”) ma, incredibilmente, non decide come sarà la pagina Facebook del negozio di Matera o del concessionario di Voghera.

Il problema è questo: gli sforzi profusi a livello globale, per costruire brand page da milioni di fan, vengono distrutti a valle, quando il singolo retailer apre una pagina Facebook o un account Twitter autonomamente, senza seguire le linee guida. La percezione del brand diventa così frammentata e disomogenea: ogni touch point fa un po’ come gli pare.

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La maggior parte dei brand pensano principalmente alla comunicazione a livello centralizzato, ma ignorano quello che fa la periferia. Basta un assessment di pochi minuti sulla maggior parte dei brand nazionali per accorgersene: il singolo retailer apre pagine locali, talvolta profili personali, luoghi. Storpia il nome. Stretcha il logo. Però, il più delle volte, riesce a costruire una comunicazione calda e one to one e a ottenere un reach immaginabile per una pagina da milioni di fan.

Le differenze di scopi e di risultati, tra le pagine globali del brand e quelle locali, è evidente ed è riassunta in questo schema.

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Alcune aziende si sono accorte del problema e hanno iniziato a testare delle soluzioni. Un esempio tra i grandi brand è McDonald’s, che è riuscito a coordinare l’immagine di tutti i singoli store: copertine di facebook e immagine profilo sono esattamente identiche e corrispondenti alle linee guida. Tra le grandi catene e i franchising, in realtà sono pochi quelli che stanno applicando questa logica.

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Esiste la possibilità di coordinare gli sforzi a livello centrale e periferico, in modo da ottenere una comunicazione che sia coerente e non rinunci ai vantaggi di uno o dell’altro modello: la forza del branding centralizzato e la personalizzazione della comunicazione (spesso personale e locale) dei retailer.

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La speranza è che le aziende prendano coscienza di questo gap e trovino un modo per colmarlo, integrando le attività svolte a livello centrale e quelle svolte a livello periferico.

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Ecco tutte le slide che abbiamo presentato alla Social Analytics Conference.

Social media e fashion nel 2011

Questo post è un punto della situazione sulla comunicazione online nel settore fashion, scritto a quattro mani da Alessandro Mininno e Bianca Ferrari.

Il 2011 è stato un anno lungo per il settore della moda, che ha visto una repentina impennata nella diffusione della comunicazione online, come attestano i numerosi casi che abbiamo raccolto. Le case di moda usano i social media quasi esclusivamente come strumento di marketing e non, per esempio, come strumento di idea generation o di customer care.

Ma Facebook e Twitter non sono gli unici strumenti ad avere un’adozione sempre più ampia. Quali sono i trend dell’anno? Quali sono state le applicazioni migliori? Proviamo a fare un punto della situazione, per capire quali possano essere gli strumenti da tenere d’occhio in questo momento.

 

1. Mobile e mobile commerce

Partiamo dalla bottom line. L’e-commerce: internet è un canale di vendita, e i dati lo confermano. Eurostat dice che il solo mercato europeo online, nel 2010, valeva 202 miliardi di dollari. Sarebbe un importo pari al patrimonio personale di Gheddafi. Si tratta certamente di un mercato in crescita: a titolo di confronto, gli stati uniti crescono del 12.6% annuo (fonte: fevad).

Cosa sta succedendo qui? La crescita del numero di smartphone e di connessioni da cellulare potrebbe portare il mobile-commerce, secondo Forrester, dagli attuali 6 miliardi di dollari (in US) a 31 miliardi nel 2016.

Perchè è interessante per il settore della moda? Le rilevazioni Comscore di settembre 2011 dicono che il 37% delle persone che fanno shopping con uno smartphone hanno comprato abbigliamento.

Google Insight riporta che

  • 79% usano uno smartphone come aiuto per lo shopping
  • 70% usano lo smartphone in negozio
  • 35% comprano con lo smartphone
  • 27% hanno comprato da un sito per mobile
  • 22% hanno comprato da una mobile app
  • lo spending medio annnuo in acquisti da mobile è di US$300.

Il mobile commerce si coniuga, sostanzialmente, in due modi.

  • e-commerce accessibili da mobile
  • e-commerce in formato nativo, per iOs o Android

Asos per esempio, distributore e marketplace inglese, sceglie la soluzione dell’applicazione nativa per mobile, e si assicura che l’applicazione sia sincronizzata con il sito scrivendo delle apposite API. Asos investe molto su questo canale, anche perchè ha visto crescere le vendite online del 61% nel primo quarto del 2011, totalizzando un fatturato di 104 milioni di sterline dal sito web solo in quel periodo.

Anche Nordstrom ha puntato a un sito completamente ottimizzato per il mobile (visibile qui), in cui lo shop è perfettamente integrato e accessibile: i 705 milioni di dollari di vendite, realizzati nel 2010 via ecommerce, devono aver aiutato l’azienda nel percepire il mobile commerce come una priorità.

Un esempio italiano è lo store di Salvatore Ferragamo (http://www.ferragamo.com), visibile da browser e realizzato in Flash, ma raggiungibile da iPad con un’interfaccia completamente diversa in HTML5. Poco prima dell’adozione della soluzione da parte di Ferragamo, un’analisi effettuata sugli ads del NY Times ha mostrato che una parte consistente della clientela interessata all’acquisto vi rinunciava poiché non atterrava su un sito ottimizzato per l’acquisto da iPhone.

2. Social commerce

Se è vero che lo shopping è sempre stato un’esperienza sociale, è evidente che ricostruire le dinamiche di gruppo (la scelta comune, il confronto, la condivisione) all’interno dello shopping online diventa sempre più importante: la componente “social” è, probabilmente, ciè che può avvicinare ancora di più l’e-commerce a un’esperienza di acquisto offline.

Tra i primi a capirlo, Levi’s ha integrato completamente Facebook all’interno del proprio “Levis Friends Store”, già nel 2010.

Questo rende possibili due nuove feature: possiamo vedere quali sono i jeans che hanno ricevuto più “like”, per decidere di comprare quelli più popolari, o di scartarli. E la seconda, più importante: l’ecommerce ci dice su quali modelli i nostri amici hanno schiacciato “like”. Non solo ricostruisce le dinamiche sociali presenti offline: le potenzia, aggiungendo delle informazioni in più. “Levis Friends Store” è stato certamente un progetto apripista in questa direzione.

 

Mi sembra molto interessante il caso di Gilt Group, una piattaforma di flash sales con più di tre milioni di utenti: il sito vende dei quantitativi limitati di prodotto per un periodo estremamente breve (36 ore, ad esempio). Gilt Group sostiene di essere un servizio “sociale”: ottiene nuovi iscritti grazie a un efficiente sistema di referral e ha un pulsante “like” e “tweet” su ogni prodotto. Ma non solo: sulla pagina Facebook di Gilt Group è possibile trovare sconti (daily deals), un sistema per gli acquisti di gruppo e una piattaforma di Facebook Commerce.

Se Levis e Gilt ricostruiscono le dinamiche sociali, Bonobos aggiunge all’ecommerce delle dinamiche di gioco: a novembre 2011 Bonobos “nasconde” delle immagini sul blog notcot, partner dell’iniziativa. Chi trova le immaginette Bonobos, “vince” 25$ in shopping e la spedizione gratuita. Bonobos, parlando della componente di gamification che applica al proprio ecommerce, dice: “È importante che sia social, non che sia commerciale”. La campagna si rivolge a un target maschile, che è interessato a interagire e a divertirsi, più che a parlare di moda.

 

Con un’idea simile, ma al femminile, Shoedazzle aiuta le proprie utenti a scegliere le scarpe attraverso un quiz.

 

Gilt e Shoedazzle non sono gli unici sistemi a integrare social network e gamification in uno store online: Shopwityourfriends è un marketplace che si basa interamente su queste dinamiche, e implica una serie di achievements per incentivare comportamenti differenti.

Gli utenti (si rivolge a un pubblico principalmente femminile) possono collegarsi via facebook e ottenere punti per ogni “azione” social: condividere un prodotto, lasciare un commento, invitare un amico. Bluefly (un altro ecommerce fashion) cerca di ottenere qualcosa di simile tramite una partnership con Badgeville: ogni volta che l’utente compie un’azione notevole (per esempio, guarda un video) il sito lo ricompensa con un reward.

L’ultimo step della socializzazione è quello che passa dalle attività “in real life”: campagne come Diesel Cam (2010), che permettono al cliente della marca di jeans di pubblicare una foto del proprio fondoschiena su Facebook, oppure siti / applicazioni come Go Try It On, che permettono alle persone di chiedere un parere sul proprio abbigliamento, prima di uscire, a tutto internet.

 3. Geolocal

I servizi di geolocalizzazione sono un trend che ha preso sicuramente piede nel corso del 2011, fino a diventare una consuetudine integrata con gli altri servizi e quasi invisibile (vedi Twitter, che posiziona praticamente tutti i tweet nello spazio, senza chiederlo all’utente).

Foursquare è stato sicuramente il player dominante per tutto l’anno, anche se iniziano a vedersi i primi segnali di flessione: il numero di utenti del servizio di Dennis Crowley sarebbe infatti in stallo.

Come viene utilizzato dai brand? Sicuramente la feature più utilizzata è la possibilità di avere una branded page, con la lista delle venue suggerite dall’azienda e con una lista di suggerimenti. Vuoi conoscere la farmacia preferita di Louis Vitton a Milano? Conoscere gli hotel più romantici di New York con Victoria’s Secret? Adidas, per esempio, lascia suggerimenti come questo: “If you are not driving a car, ask for a Negroni, the big one”.

Il passo immediatamente successivo è l’integrazione di foursquare con gli altri social network: un esempio è il widget di Dolce & Gabbana su Facebook.

L’onnipresente Luisa Via Roma è anche su Gowalla: si tratta di una scelta interessante. È importante presidiare anche i canali di nicchia? Se sì, quando?

Un caso interessante è sicuramente quello di Fratelli Rossetti: durante la Fashion Week di Milano, la boutique di Via Montenapoleone ha regalato una borsa speciale, solo ed esclusivamente a chi faceva check-in con Foursquare.

 4. Digital Advertising, branded content e social network

Sui social network l’interesse degli utenti non è più rivolto solamente ai grandi riferimenti di stilisti e influencer come Scott Schuman, Franca Sozzani, Stefano Gabbana e le grandi maison. La fruizione dei social network integra l’esperienza di acquisto del prodotto, il desiderio di esperienze esclusive legate al marchio (da sempre legato al settore moda) e le informazioni legate al prodotto. Le categorie di riferimento del settore moda sui social media si allargano a magazine di settore, community di nicchia e fashion blogger.

Un traguardo numerico come il 10 milioni di fan su Facebook per la pagina di Burberry rende chiaro come comunicare uno storytelling di valore diventi il punto più importante e un corretto uso dei canali preveda la declinazione a 360° della comunicazione online.

La sola pubblicazione di contenuti non è più sufficiente e nel 2011 una delle grandi tendenze è stata la gestione di branded content di tipo editoriale: il blog con la comunicazione delle novità interne non è più uno strumento sufficiente. Dolce & Gabbana aveva guardato avanti con la creazione di Swide, un luxury magazine e ha integrato poi tutti i profili social personali e official nel sito principale.

 

L’idea di ampliare l’approccio ai social media con contenuto che crei un mondo attorno al marchio si trova anche nel sito di 55dsl, nello spirito Lacoste Live o nella recente applicazione per iPhone Amble with Louis Vuitton.

Frai casi italiani la nascita del blog di OVS Industries con i consigli di stile o la campagna di Maggie Jeans per la ricerca di una ghost blogger da dedicare al progetto di contenuti.

Le migliori campagne di advertising create durante l’anno hanno volutamente coinvolto in più fasi il pubblico orientando l’uso di Facebook come luogo adatto alla gestione di contenuti e di pricing esclusivi – come l’attività sulla pagina di Urban Outfitters e i “Wrap of the month” in esclusiva di Diane Von Furstenberg.

Spinte dai numeri di un’ampia user base raggiungibile la scelta di contest destinati alla creazione di contenuto user generated come la recente campagna di Moncler su Facebook e Twitter OkNowYouTakeYourPicture, integrata poco e male con i social network, che ha prodotto un passaparola superficiale di immagini per la campagna SS2012 e il passaparola è stato spinto su Twitter con l’hashtag #oknowyoutakeyourpicture raggiungendo quasi a livelli di spam.

Dolce & Gabbana ha indetto una selezione tramite Facebook del protagonista di uno dei prossimi music video clip e GoldenPoint ha organizzato un contest solo su Facebook per la creazione di un proprio oufit.

Fra le campagne digital degne di nota sicuramente Diesel Island che ha proseguito sui passi della Official Be Stupid Philosophy con display a tappeto, la creazione di contenuti esclusivi online su YouTube, un’applicazione su Facebook che ha portato il tanto atteso bottone di Dislike e riscosso enorme successo e l’organizzazione di eventi in tutto il mondo e gestione della comunicazione degli stessi.

Le pagine Facebook di brand che hanno mantenuto attività di partecipazione e condivisione con gli amici e collegamenti ai prodotti al loro interno riscuotono molto più successo di quelle che si limitano all’uso di Facebook come canale di newsgiving e aggiornamento.

Fra gli esempi più noti Tommy Hilfiger con l’applicazione di augmented reality The Preppy Point of View che permette di provare virtualmente alcuni modelli della nuova linea eyewear e attualmente dei contenuti ad hoc sulla campagna Preppy Holiday. Allo stesso modo Lacoste ha diverse applicazioni attive fra cui MyCroc e Croc Moods per reintepretare il marchio con l’aspetto divertente del coccodrillo mascotte del brand, oltre allo store e a una collaborazione speciale con Lookbook.nu

 

Le community di nicchia che danno la possibilità di condividere outfit e all’interno e sui propri principali profili social hanno iniziato finalmente a vedere i brand affacciarsi a questo mondo. Oltre a Lacoste anche Mango ha recentemente collaborato con Lookbook.nu. Chicisimo per esempio è una realtà recente che vanta già diverse collaborazioni come Zara, Bershka, Stradivarius e Guess. Fra le caratteristiche anche una lieve tendenza alla gamification con la presenza di badge legati a marchi o al feedback ricevuto.

Altri esempi sono Chictopia, community attiva dal 2008 con un sistema di reward a punteggio legato anche alla possibilità di convertire i punti in acquisti e StylePage network diretto a disegner e creativi che integra per primo anche un sistema di monitoring più avanzato per visualizzare l’andamento degli stili creati.  I brand hanno imparato a raccogliere le informazioni presenti in network come Polyvore e Fashiolista come Victoria’s Secret che ha gestito e integrato un contest su Polyvore dalla pagina Facebook.

I problemi emergono però nella gestione del feedback negativo. Ha fatto scalpore nella prima metà del 2011 il caso Patrizia Pepe che ha dimostrato come manchino le basi della gestione dei fan online. La ricaduta sulla presenza online del marchio è stata immediata a causa di un attacco immotivato ai fan da parte di chi gestiva la pagina e una mancanza di apertura alla discussione e di atteggiamento propositivo. La gestione della comunicazione è poi stata demandata al blog dove potete trovare anche i dati numerici e gli effetti della crisi.

I casi di chiusura nei confronti di feedback negativo su Facebook non sono rari – ricordiamo anche la chiusura dei commenti in bacheca di Versace in seguito agli attacchi contro l’uso del trattamento di sabbiatura dei jeans – ma spesso si tratta di capire quanto lo staff dedicato alla pagina Facebook sia tentato a permettere la pubblicazione solo dei feedback positivi e lasciare nascosti quelli negativi ad esempio.

Uno dei grossi punti non risolti invece è la customer care. Gli esempi positivi di Yoox, Asos e Threadless nel retail e vendita online lasciano spazio ancora a errori come il caso di LuisaViaRoma che ha investito parecchio nell’ultimo anno in digital pr, eventi e comunicazione di brand ma grazie ai commenti in questo post di lamentele di Guia Soncini sembra che abbia dimenticato qualche regola base.

Uno degli aspetti positivi è l’interpretazione dell’uso di Twitter come strumento di interazione in real time. La conferma negli appuntamenti della New York Fashion Week #NYFW e Milano Fashion Week #MFW e per la Vogue Fashion Night Out #VFNO e #VFNOJP. Per primo quest’anno proprio il blog di Twitter a dare una lista di consigli per seguire eventi, giornalisti e update direttamente dalla sfilate. Gli aggiornamenti da backstage tramite immagini e Twitter hanno quindi contribuito ad aprire le passerelle anche ai non addetti ai lavori grazie al feedback positivo di interesse sempre crescente per il mondo della moda.

L’uso dell’hashtag in modo funzionale è stato anche applicato con la creazione del contest #versaceforhm in occasione della collezione creata in una versione low cost come collaborazione fra i due marchi. A risolvere parzialmente i disagi dell’anno precedente con la collezione Lanvin for H&M, il contest su Twitter ha scelto alcuni vincitori che hanno avuto il posto in prima fila all’apertura dei negozi e il passaparola sul network è servito come informazione sullo stato di vendita dei capi (che sono andati ovviamente a ruba).

Anche se in Italia è uno strumento meno famoso, ha avuto una forte rilevanza anche Tumblr per gli aggiornamenti in diretta. In particolare ricordo la selezione di blogger presenti su Tumblr per la preview delle sfilate e l’utilizzo dello strumento da parte di due delle voci più individuali di brand come la pr girl di Oscar De La Renta e la dkny pr girl dal desk di Donna Karan.

L’adozione di Instagram da parte degli utenti di Twitter ha predisposto l’integrazione istantanea dello strumento anche nel settore moda, da parte di influencer e fashion blogger e anche da parte dei brand.
Oltre alla creazione dei profili all’interno del network di Instagram ci sono casi interessanti di integrazione con Facebook, come nel caso di Asos , di utilizzo come fonte di raccolta immagini da parte di Donna Moderna con la creazione di Instaglam durante le sfilate alla Milano Fashion Week e di integrazione come contenuto media nella campagna #marcfam per Marc Jacobs che prevede l’aggregazione di contenuti su un apposita gallery online.

  

Nella costruzione dello storytelling di un marchio emergono un paio di punti interrogativi. Il primo è la perdita di importanza delle campagn di advertising video e sulla carta stampata, il che ha avuto come consguenza la necessità di ripensare a un canale come YouTube.

La creazione di un contenuto virale perde di efficacia se non è inserito in un’azione più ampia. Una campagna ben riuscita come quella di Lanvin per la FW11-12 o l’idea dei video virali natalizi di Converse hanno chiaramente un inserimento diverso all’interno dello storytelling complessivo se confrontati ad esempio con le performance della campagna Burberry Acoustic.

Il secondo interrogativo è la predominanza e l’utilità che hanno avuto i fashion blogger nella costruzione dello storytelling per i marchi del settore moda e la scelta fatta, forse in molti casi, per sfruttare l’ondata di seguito che hanno questi influencer senza analizzare il peso e la qualità dei contenuti che vengono pubblicati.

Con The Sartorialist l’accento era fortemente orientato al concetto di street style e trend setting. Le collaborazioni spesso forzate fra marchio e blogger stanno facendo girare l’ago della bilancia verso l’idea di testimonial, un concetto molto distante dal mondo social.