I @coltivamusica sono l’esempio perfetto di marketing territoriale

Ho incontrato i “Coltivatori di Musica” quest’estate, durante le mie vacanze ad Amantea, paese del Cosentino, che da qualche anno è culla di Guarimba – Film Festival Internazionale.

La Guarimba sta diventando il centro gravitazionale di quella zona della Calabria capace di attirare: turisti da tutto il mondo, illustratori, tanti registi e Vimeo come giuria e partner dell’evento, proprio in questo contesto ho incontrato i Coltivatori di Musica. 

I Coltivatori di Musica propongono un’idea semplice, geniale e al contempo rivoluzionaria: ballano, cucinando gnocchi di patate al sugo di pomodoro di Belmonte. 

Un video pubblicato da @betone in data:

È difficile descrivere l’esperienza che offrono, sono fortissimi: un po’ rock a billy, un po’ Italia anni 50/60, un po’ cuochi, un po’ ballerini, un po’ esperti di marketing territoriale, un po’ kilometro 0, un po’ storytelling, un po’ cucina fatta in casa, un po’ “una l’Italia vista dagli americani“, un po’ per l’identity grafica perfetta e adattissima (dalle brochure ai biglietti da visita), un po’ per i social usati con senso e un po’ per il merchandising spaziale (una presina da forno illustrata + un attrezzo in legno per rigare gli gnocchi). 

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Il filo rosso che collega questo mix pazzesco è il territorio. I ragazzi vengono da Belmonte, paese vicino ad Amantea, riconosciuto per un prodotto davvero prezioso: il tipico pomodoro. Tutto lo show, tutta la cucina, tutta l’idea mira a far conoscere il paese e i suo prodotto principale.

Di lavoro ascolto e cerco idee e questa è sicuramente una delle più forti incontrate ultimamente. È un nuovo modo di vedere l’Italia, è un nuovo modo di comunicare e dare identità ad ogni singolo paese della penisola, è un modo per non ricordare il prodotto locale. 

Spero di avere presto i coltivatori di musica a Brescia magari per il prossimo Pane Web e Salame 6.

Bravi!

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Abbiamo messo Brescia sulla mappa.

 

“Abbiamo messo Brescia sulla mappa” -cit. Mario.

È quanto ha urlato la scorsa Domenica Mario FQ dal palco di MusicalZoo. Per chi non conosce gli usi e costumi del rap nazionale, mettere la propria città sulla mappa significa: dichiararne l’esistenza, metterla in mostra rispetto altre città e, in un certo qual modo, esserne rappresentante.

Sono spesso critico verso la mia mezza-lopoli ma devo dire che il mio amico Mario ha ragione. Lui per il rap, molti altri per tanto altro.

Da buoni bresciani geneticamente ci lamentiamo:  il lamento è parte preponderante della nostra quotidianità, Vincenzo Regis, youtuber bresciano, lo spiega bene in questo video.

Penso che sia ora di fare un passo avanti e fare una lista di cose buone da condividere. Dobbiamo renderci conto di quanto stiamo facendo.

Quella che segue è una collezione di gente che sta facendo belle cose e che sta lavorando con: la creatività, la cultura, l’innovazione, la tecnologia, l’arte, la moda o la musica e che lentamente sta trasformando il tessuto economico della provincia. Sono amici che stanno facendo conoscere la città al di fuori della solita rappresentazione di Brescia del TG5 fatta di fonderie, colate di ferro e tondini. È gente che sta facendo conoscere Brescia in Italia e nel mondo.

Ecco, la lista incompleta e confusa, di chi sta mettendo Brescia sulla mappa:

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Musical Zoo è il festival di musica, arte e cultura organizzato d’estate nel castello di Brescia. L’evento è davvero pazzesco e per 4 giorni i ragazzi di Musical Zoo rianimano un castello Medioevale. Facebook. 

‪#‎6PM‬, un progetto di Link Art Center, è la più grande mostra collaborativa mai fatta. Alla stessa ora hanno inaugurato mostre d’arte in 23 Paesi, dall’America alla Cina passando per tutta l’Europa. 1 Milione di view in poche ore.

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I Fratelli Quintale fanno Rap, e sono contento che siano miei amici, sono stati scelti da MTV New Generation come gruppo del mese. Oggi hanno un video in heavy rotation in TV.
5e6 e Fred hanno prodotto e producono buona parte dei video rap (e non) che sono usciti negli ultimi tempi nel Paese: Emis Killa, Edipo, Dargen, Coez oltre a altre produzioni originali e collaborazioni con marchi e aziende.
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È impossibile non mettere in questa lista Talent Garden, Il coworking, nato a Brescia, pensato qualche anno fa da Davide Dattoli, oggi è una delle realtà più rilevanti dell’innovazione Italiana e Europea. Con diverse sedi aperte in Italia e altri paesi.

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Webdebs è la community di sviluppatori, webdesigner e altri professionisti digitali. La community è stata la culla di tanti eventi, talk e collaborazioni. Oggi il gruppo attira persone da tutta Italia ed è il punto di incontro tra amici rimasti qui e altri partiti per altri paesi.

Rehab è la serata dove suonano Looney GoonsLazy Dogs e Pska. Da qualche anno la serata è il punto di riferimento per il clubbing nel nord italia. Artisti italiani e internazionali sono passati dalla loro console.

Conosci altri che stanno mettendo Brescia sulla mappa? La lista è incompleta, aggiungi nei commenti tutti quelli che mancano 🙂

Se Facebook è il Matrix, Tsū è Morpheus?

Disclaimer

Questo blog solitamente non parla delle mode tecnologiche del momento, dell’hype da startup o della fuffa del glorioso paese dell’internet, oggi però, farò un’eccezione. Oggi vi parlo di Tsū: un social network che conosco da ben 7 ore. Un social network che dice di pagare ogni utente per i contenuti pubblicati.

Per spiegarvi Tsū devo spiegarvi Facebook, per chi ha già scrollato il post è l’ha considerato TLTR  vi metto il nocciolo della questione in bold in fondo al post! ok?

Il Matrix (Facebook)

Qualche tempo fa dicevo che Facebook sarebbe morto o che sarebbe diventato la televisione. Beh a quanto pare ha vinto la seconda ipotesi.

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Facebook è quel mostro blu che ci ha catturati tutti. Ogni giorno 1,4 miliardi di persone (Feb 2015) vivono la propria giornata attraverso uno schermo. Leggiamo il mondo, la realtà, attraverso i risultati dell’algoritmo di una piattaforma pubblicitaria (mi ricorda un po’ la televisione commerciale italiana anni 80/90′).

Tutto questo a mio avviso crea delle distorsioni assurde nella percezione delle notizie, delle informazioni e dei dati che regolano il nostro universo.  La mia bacheca è un susseguirsi di: gattini, stragi, morti-ammazzati, tette, odio razziale, lego, promozioni, EXPO, tattoo, sconti, post che indagano l’importanza della serp di Google, “fai like per il si, commenta per il no”, il “ROI dei social media” e singoli di Fabri Fibra.

Fra i vari problemi, per esempio, non riesco più a capire la differenza tra un politico – che so, per dirne uno, Salvini – e un troll – che so, per dirne uno, Dan Bilzerian – non aiuta a far chiarezza nemmeno sapere che uno dei due è stato sospeso da Facebook.

In mezzo a tutto questo delirio ho la sensazione di perdermi alcuni contenuti di valore perchè non sono stati condivisi da una grossa massa di utenti o perchè non sono stati messi sotto advertising da qualcuno.

Oltre a essere telespettatori siamo anche autori.

Come autori televisivi anni 80/90′ abbiamo capito che quello che funziona bene su questo network è il trash oppure il bombardamento pubblicitario. In altre parole oggi: se sei un’azienda, se sei il compagno di classe introverso oppure semplicemente una persona riservata, mettiti il cuore in pace, nessuno leggerà mai i tuoi contenuti.

Anche nel caso più fortunato in cui il tuo contenuto sia: bello, di valore, condiviso e apprezzato da tutti, tu, comunque, non percepirai alcun guadagno.

In sostanza possiamo solo dare: i nostri dati, le nostre preferenze, le nostre reti, i nostri contenuti migliori. Queste è ciò che tiene in vita la grossa “matrice di numeri” che ci alimenta e che alimentiamo.

Morpheus raccontava il Matrix a Neo così:

« Matrix è ovunque. È intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L’avverti quando vai a lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità. »

Tsū (Morpheus)

Tsū potrebbe essere il nostro Morpheus? Settimana prossima ne parleremo ancora? Non ne ho idea.

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Questa startup newyorkese, di 20 mesi di vita e 7 milioni di finanziamento già incassati, propone un nuovo modello sul mercato dei social: pagare gli utenti per i contenuti pubblicati. Più i tuoi contenuti sono buoni, commentati, “likati” e condivisi più accumuli soldi sul tuo account. Ogni profilo ha due sezioni per tracciare l’andamento della tua presenza online: Bank e Analytics.

Bank
Bank
Analytics
Analytics

Inoltre la piattaforma implementa già tutte le classiche dinamiche di Facebook e Twitter, gestendo così: Follower e amici, like e share, commenti e media diversi. Le regole su i contenuti, secondo questo utente, sono abbastanza rigide:

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Per finire, alcune pagine implementano il tasto “Transfer Funds”: un’ottima idea per trasferire fondi come donazione (oppure in futuro per poter comprare/pagare oggetti e servizi a singole aziende o tra privati).

Schermata 2015-04-13 alle 23.53.45Qui, in un’intervista a FOX Business, il founder Sebastian Sobczak parla un po’ di questa feature, dell’idea principale dietro alla sua startup e ipotizza qualche ritorno economico per gli utenti.

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Con altissima probabilità Tsū è fuffa ma trovo interessante l’utopia proposta da Sebastian. A dire il vero non sono nemmeno certo che questa sia la strada per il “bene” ma sicuramente è una strada nuova, che potrebbe:

  • Ricompensare chi produce contenuti di valore
  • Migliorare la qualità dei contenuti dell’intera piattaforma (o dimostrare che all’umanità interessano solo i gattini e morti-ammazzati)
  • Dare un senso a tutte le vanity metrics come: like, share, numero di follower
  • Dare pari visibilità a grandi aziende (con tanti capitali da spendere in advertising) e piccole aziende che potrebbero sperimentare idee e contenuti nuovi e assurdi per farsi trovare
  • Permettere all’intera rete di fare del bene, devolvendo i ricavati di tutto l’overload informativo che tutti i giorni produciamo
  • Dare una risposta sana alla domanda “Quanto vale il ROI dei social media?”
  • Permettermi di comprare il nuovo disco di Marracash pagandolo con noiosi post di marketing

La bad news sono che, al momento, Tsū viene utilizzato dagli utenti a mo’ di struttura piramidale (si può guadagnare anche invitando altre persone), ha contenuti simili al compro-oro-diventa-ricco-con-internet-in-5-facili-mosse, è buggato e le applicazioni mobile sono davvero bruttarelle.

Se vuoi provarlo l’invito è qui, attraverso il mio account. Ricorda anche la proposta di Morpheus:

È la tua ultima occasione, se rinunci non ne avrai altre. Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più.

Riassunto per chi non ha letto il post perchè TLTR:

Facebook mi fa paura mentre Tsū sembra essere proprio l’idea che Google+ non ha avuto. Google ha preferito aggiungere il cappello da pirata a hangout piuttosto che collegare il magico-tubo di Adsense a tutti i profili del network.

@matteorenzi, ferma la #diasporaitaliana!

Ciao Matteo,

Ti scrivo per farti una domanda e darti qualche idea. Mi chiamo Fabrizio e ho fatto impresa in Italia, lavoro in un settore fortunato: quello dell’internet e affini.

Qui di lavoro ce n’è e i progetti arrivano. Ciò che mi preoccupa è che sto vivendo un paradosso: per alcune professioni, necessarie alla mia impresa, c’è più domanda di lavoro che offerta. Questo accade perché alcuni di questi lavoratori, molto specializzati, scelgono di andare all’esterno attirati da offerte e modelli di vita a loro parere migliori.

Per esempio mezzo milione di italiani hanno scelto l’Inghilterra, almeno secondo questa infografica e questa discussione di Reddit. I dati dovrebbero venire dal consolato italiano in Inghilterra, gli internauti la chiamano la diaspora italiana.  (nota:  forse le mie fonti non sono tanto autorevoli, non riesco a risalire alla fonte esatta: ho trovato solo un altro articolo di giornale sul tema cercando “diaspora italiana“. Probabilmente il tema interessa poco la stampa?!)

Non so dirti se questo mezzo milione di persone possiede un profilo utile alla mia attività, per esempio coder,  front end developer, ux designer etc.. vedo però che quasi il 75% di questi ha un’istruzione come minimo universitaria.

Il mio problema quindi è: come competere internazionalmente con le offerte di lavoro che arrivano dall’estero? Per quanto possa sforzarmi, dopo aver speso circa il 60% della liquidità di un anno di impresa in: IVA, contributi, ritenute, IRAP, INAIL, TASI, etc.. mi è davvero impossibile proporre contratti simili a quelli di altri paesi europei o extra-europei.

So che ti sta molto a cuore la questione “startup tecnologiche” per questo oltre a bandi, incubatori, servizi di consulenza e spazio di lavoro condivisi, ti propongo alcune idee che ho visto in giro per il mondo e che mi aiuterebbero in modo più concreto:

  • Irlanda e Inghilterra permettono alle aziende e ai lavoratori di scegliere (per un periodo concordato) se versare i contributi pensionistici oppure riceverli, subito, direttamente in busta paga. Mi sono accorto che molti di quelli che se ne vanno preferiscono l’uovo oggi piuttosto che la gallina domani, perché non concederla loro?  (siam sicuri della nostra Gallina domani?)
  • In Malesia le aziende ICT iscritte al programma MSC sono esenti dalle tasse per i primi 5 anni.
  • In Korea del sud gli studenti migliori vengono formati, mandati in occidente per qualche anno, per poi far ritorno nelle aziende del paese. Questo secondo alcuni accordi tra il governo e alcune delle maggiori aziende sudcoreane.
  • In Canada se assumi a tempo indeterminato o rinnovi contratti annuali, vieni rimborsato del 50-70% dello stipendio per le prime 7-24 settimane. 
  • In Australia se assumi in 50enne ricevi dei sussidi

Credo che alcune di queste riforme possano aiutare anche a cambiare il percepito del brand Italia per quanto riguarda la questione lavoro.

In fine, dato che sei stato a Brescia (la mia città) pochi giorni fa, ti invito a leggere con i tuoi occhi qual è la situazione del mercato percepita da quella che hai detto essere “Italia leader se fosse come Brescia”. In questo post, sul social network blu, ho chiesto a un gruppo di 830+ (Bresciani e non) professionisti di settore, cosa consiglierebbero a un 17enne: stare o andarsene dal paese? Ecco le risposte.

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Aspetto tue “ASAP” 🙂

Ciao, Fabrizio aka @Betone

p.s. per tutti gli altri se conoscete altre belle idee ditemele tra i commenti, le aggiungerò al post!

Le aziende del fashion usano i social per venderti vestiti: scopri come

Digital trend nel fashion retail: dall’interazione all’acquisto

Negli ultimi tempi, è diventato evidente a chiunque utilizzi i social network che i brand di moda siano sempre più presenti e in maniera molto attiva su questi canali. Ma con quali scopi le grandi e piccole marche del fashion retail gestiscono i loro account social? Quali sono i trend in atto?

Abbiamo voluto fare una veloce ricerca per aggiornarci e per trovare qualche esempio recente che ci dia indicazione su come muoverci online con i nostri clienti. In particolare, ci siamo chiesti quali possano essere le strategie che si possono realizzare per convertire l’engagement dell’utente in intenzione di acquisto. Ecco quello che abbiamo scoperto.

Pinterest

Questo social network sta definitivamente cambiando la metodologia di acquisto online dei consumatori. L’elemento fondamentale per capire l’importanza di Pinterest nel retail, e nel fashion retail soprattutto, è la differenza tra search e discovery. Quando cerchiamo qualcosa, infatti, abbiamo più o meno già in mente che cosa ci serve e ci limitiamo a utilizzare il web per trovare quel prodotto al miglior prezzo o nella variabile che più ci piace. Quando invece stiamo scoprendo qualcosa, non si tratta quasi mai di un prodotto di cui eravamo alla ricerca in maniera specifica, ma piuttosto di un oggetto che ci colpisce per la sua bellezza e unicità in mezzo ad altri oggetti interessanti. Ecco, Pinterest ha categorizzato questo processo di scoperta dei prodotti, soprattutto dei prodotti “belli”, in grado di colpire visivamente l’osservatore.

Non stupisce, quindi, che Pinterest si configuri come il social network della moda per eccellenza, per lo meno quando lo si analizza da un punto di vista delle vendite. Nel 2013, infatti, Pinterest ha superato tutte le altre piattaforme nella media degli acquisti da social referral (fonte Monetate).

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A differenza di Instagram, Pinterest riesce a convertire in valore economico i pin degli utenti: nello specifico, secondo quanto esposto recentemente dal Washington Post1 pin equivale a 0,78 $.

Di conseguenza, questo social network si sta configurando oggi come uno strumento sempre più imprescindibile per i retail di moda che vogliano ottenere awareness e convertire l’engagement in vendite. Al punto che le aziende stanno cominciando a strutturare i propri e-commerce e gli stessi negozi sulla base dei pin ottenuti.

Un esempio su tutti è Nordstrom, che organizza parte dello shop online con i top pinned in evidenza, curando settimanalmente la sezione chiamata Pinspiration. Gli stessi prodotti in vendita a scaffale nei negozi contengono le segnalazioni dei pin ricevuti.

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Per assecondare il più possibile il collegamento tra le board degli utenti e i carrelli degli e-commerce, Pinterest mette a disposizione delle aziende alcuni strumenti specifici. A cominciare dall’ormai più che conosciuto Pin it Button e dagli analytics, cui si aggiungono i rich pin di prodotto, che includono il prezzo aggiornato, la disponibilità e il punto vendita in cui trovare l’oggetto che si sta pinnando.

Inoltre, il social network ha messo in sperimentazione i promoted pin ed esiste già una partnership con Zappos e Walmart per sfruttare il now-trending-tool che permette di utilizzare i dati di Pinterest in real time. Per il futuro, il social network promette di espandere le proprie API per fornire una maggiore quantità di dati per una loro successiva elaborazione in ottica di business.

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Un esempio recente e significativo di integrazione del sistema di valutazione tramite pin degli utenti con l’e-commerce di un fashion retailer è Awesome shop di Target.

Dopo aver registrato un aumento del 70% del traffico al proprio sito nelle sei settimane successive all’introduzione dei rich pin (fonte Cnbc), l’azienda ha lanciato un mini-sito dedicato alle “cool stuff everyone is talking about”. Ovvero un database con i prodotti del brand che hanno ricevuto il più alto numero di pin degli utenti e il numero massimo di stelle nelle review di Target: una sorta di lista degli oggetti più belli, curata direttamente dal pubblico. Il sito è navigabile per categoria e la selezione di un prodotto rimanda all’e-commerce di Target per l’acquisto. In pratica, gli utenti scelgono cosa comprare tra i prodotti di Target che altri utenti hanno selezionato per loro – è la forma più alta del cosiddetto “trusted word-of-mouth” ed è una garanzia di successo.

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Un altro esempio interessante di integrazione di Pinterest online e in store è quello della campagna “Dear Topshop” che l’azienda ha realizzato per la stagione di shopping natalizio.

Pinterest è protagonista a cominciare dalla home page del sito di Topshop, in cui i prodotti sono ordinati secondo il numero di pin ricevuti. Dopo aver navigato il sito utilizzando le tre categorie disponibili (A gift that will wow, All things that sparkle, A bit of romance), gli utenti possono pinnare i prodotti e condividerli nei propri canali social con l’hashtag #deartopshop.

In una campagna che lega fortemente l’online ai punti vendita, i prodotti più pinnati sono segnalati anche in store, mentre nei due flagship di Londra e New York alcuni touch screen giganti permettono ai clienti di aggiornare continuamente le board e continuare a pinnare, condividere e comprare i prodotti Topshop in diretta. È stato detto che “it was all about Pinterest for Tophop this season” e la definizione sembra sicuramente adatta!

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Instagram

Parlando di social network e di brand di moda, quella tra Pinterest e Instagram è sicuramente una bella gara. I dati di Socialfresh sull’ultima Fashion Week a New York parlano di oltre 2,5 milioni di interazioni  sull’hashtag #NYFW (tra foto scattate, like e commenti) in soli 8 giorni: non è difficile capire come Instagram sia diventato il social per il fashion retail!

Quasi non esiste più brand che non sia presente su questa piattaforma con la sua dose giornaliera di contenuti di backstage, di nuove collezioni e di dirette dalla passerella – e se ci fosse ancora un brand assente all’appello, il consiglio sarebbe di correre ad aprire subito un account, perché “if a company has a visual product to sell and it’s currently not on Instagram, that company is missing out on significant brand awareness and revenue” (l’ha detto Dan Atkinson, CEO di SumAll).

Instagram per il fashion retail significa soprattutto engagement a livelli fino a 15 volte superiori a quelli di Facebook, ma l’impossibilità di usare link e di sfruttare il click through rende difficile misurare l’effettivo ritorno economico di queste interazioni, per quanto sia evidente il livello molto alto che possono raggiungere.

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L’unico tool offerto da Instagram che possiamo prendere in considerazione ai fini di questa ricerca è Instagram Direct, il servizio di messaggistica privata che permette di inviare immagini e video in chat con un gruppo ristretto di interlocutori (massimo 15 persone per conversazione).

Quali sono le potenzialità offerte da questo strumento? Un primo utilizzo di Instagram Direct è quello che è stato proposto da GAP a solo due ore dal lancio del servizio, ovvero l’organizzazione di photo contest ristretti a pochi partecipanti. Il brand ha fatto una call to action aperta a tutti i follower in una foto pubblicata nel proprio profilo Instagram, ma solo i primi 15 che l’avessero commentata avrebbero potuto partecipare al #WIWT contest. In palio una custodia per tablet, ma, soprattutto, la creazione di un sistema di rewarding dei propri fan che non ha pari.

Allo stesso modo e con la stessa velocità, anche Michael Kors ha dimostrato di saper cogliere le potenzialità offerte dallo strumento per stabilire una forma di premiazione dei propri “super users”: i primi 50 a pubblicare una foto con hashtag #MKDirect avrebbero ricevuto un messaggio personale ed esclusivo il giorno successivo.

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Lo strumento si offre bene anche ad altri utilizzi, dal customer service all’invio di coupon. In quest’ultimo caso, è evidente come Instagram possa a tutti gli effetti trasformare direttamente l’engagement in intenzione di acquisto.

A giudicare dalle tendenze online, credo che il consumatore che visiterà un negozio o lo shop online di un brand che ha utilizzato Instagram Direct per inviargli un coupon sconto a seguito di un contest o di una call to action sarà anche e prima di tutto un fan soddisfatto, che si sente premiato per la sua fedeltà e che si sarà conquistato quello sconto grazie alla propria volontà di partecipare alla vita del brand.

Instagram, in questo modo, sta riuscendo ad alzare l’asticella dell’engagement ancora più in alto rispetto a tutti gli altri social network e mantiene il proprio primato come strumento in grado di creare fidelizzazione e awareness più di qualsiasi altro.

Twitter

Se c’è un social network che permette di monetizzare in tempi brevissimi e su scala globale questo è Twitter. Lo ha dimostrato recentemente American Apparel, che ha presentato un case study dall’eloquente titolo “How American Apparel makes $50,000 in one hour on Twitter”.

L’intervista a Ryan Holiday, direttore marketing del brand, esamina molto bene le potenzialità offerte da Twitter, lo strumento più veloce e immediato per comunicare con i fan e per premiarli. Come? Ad esempio, con flash sales che durano un lasso di tempo molto ristretto – anche solo un’ora – durante il quale vengono twittati un link all’e-commerce e un codice sconto da inserire.

Non sarà l’idea più originale del secolo, ma è un’idea che funziona. Si basa, come Instagram Direct, su un concetto di fondo di esclusività: solo chi è online in quel preciso momento ha diritto alla promozione e per questo si sentirà “speciale”. Allo stesso modo, il tempo limitato fa leva pesantemente sulla psiche dei consumatori portandoli al più classico degli acquisti d’impulso.

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Twitter permette anche di creare dinamiche particolari di RT che aumentano esponenzialmente il reach di una campagna, per quanto limitata nel tempo possa essere. Inoltre, l’utilizzo intelligente degli hashtag tematici consente di collegare bene online e offline (ad esempio, American Apparel l’ha fatto ad Halloween, incorporando l’hashtag #AAHalloween su tutti i contenuti del brand, dalle vetrine dei negozi ai print avd, creando un effetto di rimbalzo delle conversazioni).

Snapchat

Se il principio che rende i flash sales su Twitter un successo garantito è la limitata durata dell’offerta nel tempo, Snapchat è in grado di spingere questo concetto al limite massimo, riducendo la finestra di offerta a soli 10 secondi.

Questa app di messaggistica istantanea è stata scoperta anche dal mondo della moda, che la utilizza principalmente per inviare ai fan contenuti esclusivi di dietro le quinte, dagli sneak peek delle nuove collezioni alla diretta dalle passerelle. Ma un utilizzo alternativo e ad alto potenziale di Snapchat per il fashion retail è sicuramente l’invio di coupon ed è quello che sta facendo il brand americano Karmaloop.

In sostanza, si tratta di una gamification estrema del concetto di couponing che si adatta perfettamente al target di questo social network, ovvero ragazzi di giovane età che interpretano come una sfida l’offerta che dura solo 10 secondi di un coupon a cui fare uno screenshot al volo. Grazie a questa strategia, Karmaloop sta ottenendo un incredibile successo ed è riuscito a raddoppiare i propri follower.

Chissà che non possa essere una buona strada da seguire per tutti i marchi di streetwear che si rivolgono a un pubblico più giovane.

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 Jelly

Rimanendo in tema di social network di nuovissima generazione, vale la pena di dare un’occhiata anche a Jelly, l’app lanciata a gennaio 2014 per chiedere cose e ottenere le relative risposte attraverso Twitter e Facebook, grazie all’aiuto dei propri amici e di chi utilizza la stessa applicazione. La possibilità di fare domande e dare risposte in merito una fotografia rappresenta un terreno ancora inesplorato ma ad alto potenziale per i brand di moda.

Cosa succederebbe se un marchio fashion iniziasse un dialogo con i propri fan, chiedendo, ad esempio, con cosa si abbinerebbe meglio la tale maglia? E se il brand addirittura riuscisse a inserirsi nelle conversazioni già esistenti tra gli utenti per rispondere alle loro domande?

Il ritorno in termini di awareness e di reputation sarebbe altissimo. Allo stesso modo, Jelly potrebbe diventare un ottimo canale per fare innovazione di prodotto, sfruttando la community come una sorta di focus group ampliato all’ennesima potenza.

Per il momento sono ancora pochi i brand di moda che hanno abbracciato questo nuovo social network, ma le potenzialità ci sono tutte e siamo ansiosi di scoprire quali sorprese ci riserverà Jelly.

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In conclusione

Quando si parla di digital trend per il fashion retail, engagement è la parola da mettere ancora e sempre al primo posto. Gli utenti vogliono sempre più partecipare in prima persona alla creazione dei contenuti di cui usufruiscono e le aziende devono tenere conto di questa necessità nel costruire un dialogo con i propri fan.

Siamo tutti curatori nei confronti degli oggetti che ci circondano e vogliamo, anzi, quasi dobbiamo esprimere il nostro giudizio su quello che vediamo e che compriamo. Il nostro è un giudizio in grado di influenzare il comportamento di altri che condividono la stessa rete e il word-of-mouth è diventato il canale di comunicazione preferenziale.

Gamification, senso della sfida, tempi limitati e esclusività: si tratta di leve potenti su cui si può fare forza per lanciare un’attività di couponing o di flash sale che miri, sì, a portare i clienti all’acquisto, ma anche a divertirli e a farli sentire speciali.