Hai fatto un disco bello ma nessuno lo ascolta? Leggi questo e diventa Snoop.

 

Ultimamente mi è capitato di lavorare su alcuni progetti musicali e televisivi. Da anziano appassionato di musica, di hiphop, non potevo che desiderare altro: unire il mio lavoro alla mia passione.

Devo dire che ho fatto – e sto facendo –  molta difficoltà a separare il cuore dalle orecchie e il cervello dal portafoglio. In altre parole muoversi nel mondo della musica è davvero complesso. Le marginalità sono schiacciate, la filiera lunga, l’offerta tanta (troppa forse), il pubblico (nostalgico della gloriosa guerra underground vs mainstream) non paga. Infine, la qualità del prodotto (ecco la parte soggettiva, di cuore e orecchie..) è spesso altalenante.

Per cercare di consigliare al meglio le persone con cui lavoro, ho deciso di chiarirmi le idee appuntandomi i principali modelli di business e di comunicazione della musica.

Come sopravvive la musica oggi?

Musica Televisiva

È forse il modello di business più evidente oggi. È il mix di tv, reality show e contratti della major a scatola chiusa. Il fatto che una major proponga degli accordi ancora prima di conoscere i cantanti (o i vincitori del concorso) a mio avviso – da fan boy con le orecchie – fa riflettere alla qualità del prodotto finale. Di esempi ce ne sono tanti: TheVoice / Sony Music / Suor Cristina oppure XFactor / Universal, etc..

Questi prodotti, sempre a mio avviso, durano una stagione e faticano a creare delle carriere durature. Non ne conosco i dettagli ma a livello di ritorni economici immagino possano coprire i costi e assicurarne i margini per tutto il primo anno di lancio dell’artista.

Se vuoi cimentarti in questo, cerca la prossima selezione degli artisti vicino a casa tua.

Una foto pubblicata da @betone in data:


Questo sono io con Suor Cristina a The Voice Of Italy

Internet & Music Stars

Le internet stars: o meglio le Facebook Star e gli YouTuber, sono tutte quelle persone, che tu – adulto – non conosci. Sono giovani (per lo più) che mettono online un video al giorno e che magicamente ottengono centinaia di migliaia o milioni di views. 


In realtà non c’è nulla di magico. Le internet stars hanno capito molto bene come funziona la comunicazione online: hanno ereditato i contenuti (o meglio l’assenza di essi) tipici della TV e li hanno adattati ai tempi di internet. Nello stesso modo le vecchie agenzie che gestivano tronisti e altre starlette televisive, oggi, gestiscono Youtubers e Facebook star. Le immagini, i volti e i tormentoni creati, subiscono il medesimo processo di un tempo e vengono utilizzati per molto altro: film trash, ospitate in disco, libri, album delle figurine e product placement.


Se questo è il mondo che oggi muove i numeri più grossi (in termini di audience) è facile capire come mai molti cantanti, o molti rapper, collaborano con le internet stars. Quindi? Via a pernacchie, rutti e puzzette: Fred de Palma con Sebastian Gazzarrini , Clementino con il Pancio, etc, etc..  In questi rapporti il beneficio è reciproco: visibilità per il cantante, credibilità per lo youtuber. I modelli di business, ovviamente, possono essere i più svariati. vedi sopra.  

Adoro le Internet Stars, ma vogliamo davvero che i nostri cantanti preferiti diventino dei personaggi di Zelig? peggio di Colorado cafè? Le mie orecchie e il mio cuore dicono di no.   

Schermata 2015-09-02 alle 16.56.59 Io e Favij che guarda Irene

Major o Etichette Indipendenti

Questo è il modello più classico. Che sia una major o un’indipendente, l’artista entra in contatto con un network di professionisti capace di farlo crescere e/o di crearne un’immagine, un’identità, gestirne date e comunicazione.

Questo motore, fatto di professionisti del settore, ha bisogno di benzina per girare, ma oggi di benzina ce ne poca perché pochi sono gli album venduti. Se il progetto artistico non si comunica (non vende) da se, i costi di comunicazione e produzione possono schiacciare il progetto. Di certo i soli social non aiutano nell’impresa, specie se l’artista non è innamorato di Facebook o Periscope.

Al fine di tenere in piedi tutta la filiera (e il proprio tornaconto personale) “il cantante” diventa un imprenditore a 360 gradi. Questo spiega perchè alcuni rapper si mettono a produrre brand di vestiti, diventano presentatori TV, sponsor di prodotti e tanto altro. Si chiama brand extension.

L’esempio di riferimento, in questo caso, non può essere altri che Fedez, infatti durante il periodo d’uscita del suo ultimo album Pop-Hoolista, in serie ha fatto: inno Movimento 5 Stelle, copertina Rolling Stone, Youtube Serie Zedef Chronicles, giudice X-Factor, campagna Sislsey, Iena alle Iene, ha litigato qua e là con un paio di persone,  lancio del nuovo disco, lancio dei singoli e dei video, lancio della propria etichetta discografica. Bingo, un mostro!

Schermata 2015-09-02 alle 17.02.29 Qui  sono sempre io (e qualche amichetto) che facciamo scandalizzare Fedez con la pagina NOAITATUAGGI. Ehi anche noi ne sappiamo di populismo!

Musica autoprodotta in crowdfunding (sellaband, musicraiser, and more)

Questo è il modello che preferisco, ma che in realtà non ha ancora preso piedi in modo considerevole. Siti come SellaBend e Musicraiser permettono agli artisti di aprire una pagina, proporre il proprio progetto, mettere in pre-ordine la propria musica, in altre parole vendere qualcosa che ancora non esiste. Raggiunta una soglia minima di fondi raccolti, il progetto entra in produzione: chi ha finanziato riceverà il prodotto.  

Il rapper EGREEN ha da poco lanciato la sua campagna di crowdfunding. segue la video presentazione.




Vedo questo modello perfetto per tutte le mie glorie preferite del hiphop nostrano, quegli artisti leggendari da 50k fan su Facebook. Bacini di utenza ridicoli se confrontanti a “nuovi giovani”, senza carriera e passato, ma con 1 Milione di fan al seguito.
Ecco per tutte queste leggende, per tutti quei gruppi storici che ancora riempiono le serate ma che faticano a far amicizia con le dinamiche di internet odierne, il mio consiglio è: andate in crowdsourcing. Proponeteci un progetto pazzesco, tipo che so “un nuovo disco del Colle der Fomento olografico a casa tua, in oro massiccio, in un cofanetto a forma di lightsaber“, e io – e immagino molti altri come me – sarò del tutto indifferente al prezzo. Take my money, now. 

1928797_47918447157_3842_n Questo sono sempre io con il mio crew Monkey Combos, quella volta che abbiamo aperto al Colle der Fomento (in questo caso non sono ologrammi).

Il Modello delle Aziende

Il modello aziendale è forse il peggior modello presentabile a un rapper o punk anni 90′.
In questo caso, l’artista mira a farsi pagare dall’azienda l’intero prodotto discografico, album, evento o video che sia.
In realtà questo modello è tanto valido tanto quello del crowdfunding. Credo siano questi due i modelli futuri.


Il funzionamento di questo modello è davvero banale: le aziende oggi hanno l’esigenza di parlare su i social, ma diciamoci la verità, nessuno sa mai cosa raccontare, come fai ogni giorno a interessare milioni di persone parlando di biscotti? the o bibite? Aziende sveglie hanno già capito questa cosa e finanziano interi progetti artistici, creando così la loro più riuscita e memorabile campagna di comunicazione. Dalle Adidas dei Run DMC, alla CocaCola di Vasco, fino ai rapper di Redbull, forse musica e azienda non sono poi così male.


Sta agli artisti capire dove, come e perché unire il proprio lavoro a quello di una multinazionale. Per me i risultati oggi sono davvero fighi e indimenticabili: Redbull gli Originali, Redbull Sound Cash, Estathè Market Sound.

Uffici con i poster belli, epici direi. Correva l'anno 2006. #redbull #glioriginali

Una foto pubblicata da @betone in data:


Questa è la foto di un poster-reliquia negli uffici Redbull aMilano

N.B. Questo modello è differente da quello che segue: qui si parla di farsi finanziare l’intero progetto artistico, non di vendere all’azienda uno spazio di comunicazione sul proprio canale Facebook o Twitter (Segue).

Il Modello che non esiste

Il modello di business per la musica che non esiste più è quello che, purtroppo, hanno in testa in molti.

Il sogno composto da: faccio della buona musica, mi impegno e il futuro mi riconoscerà che sono bravo, semplicemente, NON ESISTE

Chi è veramente bravo, chi sta facendo i numeri e vende i dischi, oggi è costretto a vendere anche librerie dell’Ikea o surgelati via Twitter.

http://spesarap.tumblr.com/post/91758289576/risotto-ai-funghi-4-salti-findus-280gr-da

questo è il mio Tumblr, dedicato a tutti i rapper che fanno la spesa al supermercato.


Pensare di produrre un disco e scegliere di NON: darsi un’immagine, una strategia, un’identità, relazionarsi con i fan su i social o è molto romantico o semplicemente pazzo. 
Chiudersi in una grotta non aiuterà mai a far arrivare la propria musica a nuove orecchie.


Tutto questo questo avviene perché i modelli di business, e i tempi, sono cambiati e semplicemente quello che funzionava prima, oggi non funziona più.
Chi fa buona musica oggi deve essere bravo a comunicarsi e a comunicare. L’intero progetto Machete Prod in questo senso ne è un esempio: musica, video, design, illustrazioni, merchandising, comunicazione e strategia. Tutto a regola d’arte. Dal giorno 1. A mio avviso sono il metro di paragone (almeno per quanto riguarda comunicare la musica..)

I @coltivamusica sono l’esempio perfetto di marketing territoriale

Ho incontrato i “Coltivatori di Musica” quest’estate, durante le mie vacanze ad Amantea, paese del Cosentino, che da qualche anno è culla di Guarimba – Film Festival Internazionale.

La Guarimba sta diventando il centro gravitazionale di quella zona della Calabria capace di attirare: turisti da tutto il mondo, illustratori, tanti registi e Vimeo come giuria e partner dell’evento, proprio in questo contesto ho incontrato i Coltivatori di Musica. 

I Coltivatori di Musica propongono un’idea semplice, geniale e al contempo rivoluzionaria: ballano, cucinando gnocchi di patate al sugo di pomodoro di Belmonte. 

Un video pubblicato da @betone in data:

È difficile descrivere l’esperienza che offrono, sono fortissimi: un po’ rock a billy, un po’ Italia anni 50/60, un po’ cuochi, un po’ ballerini, un po’ esperti di marketing territoriale, un po’ kilometro 0, un po’ storytelling, un po’ cucina fatta in casa, un po’ “una l’Italia vista dagli americani“, un po’ per l’identity grafica perfetta e adattissima (dalle brochure ai biglietti da visita), un po’ per i social usati con senso e un po’ per il merchandising spaziale (una presina da forno illustrata + un attrezzo in legno per rigare gli gnocchi). 

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Il filo rosso che collega questo mix pazzesco è il territorio. I ragazzi vengono da Belmonte, paese vicino ad Amantea, riconosciuto per un prodotto davvero prezioso: il tipico pomodoro. Tutto lo show, tutta la cucina, tutta l’idea mira a far conoscere il paese e i suo prodotto principale.

Di lavoro ascolto e cerco idee e questa è sicuramente una delle più forti incontrate ultimamente. È un nuovo modo di vedere l’Italia, è un nuovo modo di comunicare e dare identità ad ogni singolo paese della penisola, è un modo per non ricordare il prodotto locale. 

Spero di avere presto i coltivatori di musica a Brescia magari per il prossimo Pane Web e Salame 6.

Bravi!

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Scopri perché @Mcdonalds ci ha trollato (e ci siamo cascati tutti)

Le barrette di cioccolato rumene dallo stile americano

Se siete stati studenti miei, o di Alessandro, sicuramente vi avremo fatto vedere il video “The American Rom” del produttore di cioccolato rumeno ROM.

Forse la migliore – o più interessante – campagna digital che io riesca a ricordare. Oggi inizia ad avere la sua età, parliamo di una campagna del 2011, ma i concetti alla base restano comunque attuali e fortissimi.

Rom Chocolate è la barretta al cioccolato più venduta in Romania. Durante la campagna “The American Rom” il packaging del prodotto è stato modificato: tolta la bandiera rumena e applicata la bandiera americana. Così spot TV, radio e banner hanno iniziato a promuovere il gusto rumeno con lo stile americano.

In una Romania del 2010 contraddistinta da crisi economica, disoccupazione giovanile, forte dissenso contro lo stato e voglia di scappare in altri paesi, Rom Chocolate ha causato il polverone: ha smosso gli animi nazionali.

La campagna aveva colpito al cuore delle persone, anche di quelle stanche, stufe e schifate del proprio stato. Nessuno poteva davvero permettere che la barretta simbolo del paese diventasse americana.

Questo ha causato: grande dissenso, manifestazioni, troll su internet etc.. etc..

Fino al momento della scoperta del trucco di comunicazione e il forte abbraccio dell’azienda verso un paese economicamente a pezzi.

L’azione ha regalato:share, passaggi tv, interviste e aumento delle vendite. Rom chocolate oggi è simbolo di unità nazionale.

Gli hamburger americani dal gusto italiano

Ecco noi oggi siamo la Romania e McDonald’s è il nostro Rom Chocolate.

In questo post ho già parlato di quanto sia forte l’emigrazione in alcune professioni e fasce d’età in Italia. Più che fuga di cervelli oggi è proprio fuga e basta.

Su i network i livello di critica a questo paese, alla stato, alla politica alla stagnazione economica è folle. Al punto da fare il giro e tornare all’origine.

Mi spiego meglio: tempo fa per essere “antagonista” dovevi essere uno contro, anti, non andare da McDonald’s, lamentarti di qualsiasi cosa questo paese ti potesse offrire, ascoltare musica undergound  (il rap o il punk) ed essere esterofilo.

Oggi il paradigma è cambiato, quelli che un tempo erano “antagonisti” oggi sono di moda/mainstream e si chiamano Hipster. Oggi per essere davvero controcorrente – probabilmente – conviene essere pro-qualcosa: pro-McDonald’s, pro-Italia, pro-rapper mainstream e tentare di restare nel paese in cui sei nato. Questo è essere davvero un anti-anti, no? 

Ecco tutto questo lo Stato, la politica, faticano a capirlo, McDonald’s no.

Dopo aver inanellato una serie di vittorie di comunicazione come La colazione in pigiama (a sola una settimana dallo “scandalo” della sponsorizzazione a EXPO MILANO 2015) e Single Burger, ieri l’azienda mette online questa pubblicità (rimossa solo poche ore dopo).

Il resto lo sapete: l’Italia è andata in corto circuito. Un bambino in una pubblcità della cattiva multinazionale americana ha detto che preferisce un happy meal a una pizza? Ed è subito scandalo, rivolta, video, status update etc etc…

Proprio come un una commedia del reale, proprio come Rom.

Il succo è questo

Personalmente non mi hanno colpito i video di politici, i commenti degli chef della trattoria all’angolo, i blog post dei food-blogger al tofu, gli annunci tv, la parola SCANDALO scritta in capslock e tutte le analisi di #EPICFAIL dei socialguru. Tutto questo immagino fosse progettato e calcolato.

Quello che mi ha colpito è leggere commenti (chi pro, chi contro) di tutti quei miei amici che oggi sono in altre peasi, in fuga da questo posto malato. Siamo tutti caduti nel trabocchetto comunicativo dell’azienda con il logo con “le due collinette d’oro” (-cit, vedi sotto). Io per primo, con questo post.

In un clima di totale ribrezzo verso noi stessi, la comunicazione di McDonald’s, ad oggi, è l’unica che è riuscita a colpire al cuore di tutti. L’ha fatto passando per la nostra bandiera nazionale: la pizza.

Bravi e tanta invidia per aver fatto una campagna del genere!

p.s. Finalmente è arrivata l’era del Troll-Marketing, e io sono qui ad accoglierla a braccia aperte 🙂

Perchè ci siamo comprati Gummy Industries

You can read this post in english on the Gummy Industries Blog

Da venerdì 12 dicembre 2014, abbiamo assunto il controllo del 100% delle quote di Gummy Industries (fino a pochi giorni fa la maggioranza di Gummy era controllata da un’azienda di Siena).

Per Gummy Industries inizia una nuova fase.

Questo post serve a fare il punto della situazione, a rivelare un po’ di segreti aziendali e a raccontarvi dove vorremmo andare, nel futuro prossimo.

Tre anni di internet

Immaginate di essere nel 2012.

I social sono tremendamente efficienti e la comunicazione online è un campo ancora poco esplorato. Abbiamo deciso di aprire un’agenzia 100% digital: dal marketing al design, fino allo sviluppo web e ai social. Eravamo solo in quattro persone.

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Ci siamo attivati subito: in poco tempo siamo arrivati a gestire i social di Costume National, D.A.T.E., Bomboogie, Punkt con risultati più che interessanti (abbiamo portato D.A.T.E. da 3.000 a 35.000 fan).

Nel 2013 abbiamo tirato fuori i muscoli: abbiamo iniziato a lavorare per giganti come Ernst&Young, Henkel, Safilo e Ducati. Abbiamo completato 35 progetti tra siti, web app e campagne di comunicazione digital.

Il 2014 ci ha visti impegnati su consulenza e formazione, ma il nostro obiettivo principale è stato lo sviluppo di campagne digital. Abbiamo realizzato progetti come il Meme Generator per The Voice of Italy (RAI) e abbiamo fatto consulenza per istituzioni come Expo 2015.

Come siamo arrivati qui?

Prima di tutto, ci piace molto fatturare

Gummy Industries è un’azienda: la prospettiva reddituale è fondamentale per noi. Se non producessimo fatturato, Gummy Industries non esisterebbe.

Ecco alcuni key points:

  • abbiamo chiuso tre anni in attivo
  • non abbiamo mai fatto ricorso alla leva dell’indebitamento bancario
  • fino a ora non abbiamo mai utilizzato bandi o investimenti pubblici
  • di norma, paghiamo tutti i fornitori in modo puntuale
  • a partire da un gruppo di quattro persone, ora siamo in una decina

Questo fa di Gummy un’agenzia indipendente e libera, in buona salute e in crescita.

Vorremmo vivere in un’Italia più digitale

Uno dei nostri obiettivi è far crescere la cultura digitale nel nostro Paese: parlare di internet, diffondere le best practice, condividere con tutti quello che abbiamo imparato.

Per esempio, tutte le nostre lezioni, le presentazioni e le ricerche vengono pubblicate su Slideshare. Gratis. Quando lo raccontiamo a chi lavora nella consulenza veniamo presi per matti.

Da cinque anni organizziamo la conferenza Pane Web & Salame (con la collaborazione di Talent Garden) che nel 2015 sarà alla sua sesta edizione.

Tra le altre cose, abbiamo curato l’evento Almost Handmade (con il coworking Fabbrica dei Mestieri) dedicato al nuovo artigianato e l’edizione bresciana del festival internazionale di cortometraggi La Guarimba.

Siamo attivi in numerose attività di formazione e insegniamo al MADEE dal momento in cui ha aperto (Digital Accademia, Treviso), oltre che al Master Relational Design (ABADIR, Catania) per cui abbiamo organizzato un workshop da due settimane.

Siamo arrivati a insegnare in Cina presso LABA (Politecnico di Shangai, Ningbo) e abbiamo curato diversi progetti di formazione aziendale.

Ci invitano spesso a parlare in università (Università di Brescia, Politecnico di Milano, Bocconi, IED, Accademia Santa Giulia).

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Qui le persone sono importanti

Cerchiamo di essere flessibili su tempi e modalità di lavoro: puoi andare in Cina un mese o lavorare da casa in Puglia, basta che fai quello che devi fare.

D’altra parte, se c’è una cosa che ci piace è viaggiare per il mondo.

Per esempio, durante il primo anno siamo andati tutti insieme ad Amsterdam: abbiamo fissato più di dieci incontri in tre giorni, abbiamo incontrato persone affini a noi e, chiaramente, siamo andati a vedere Van Gogh.

Ogni persona in Gummy è diversa dall’altra: promuoviamo l’eterogeneità e abbiamo un team veramente trasversale. Crediamo che il personal branding di tutti sia un valore per l’azienda.

Nel corso del tempo, abbiamo avuto tra i nostri collaboratori (in ordine sparso): un’archeologa, un sound designer e dj, una portoghese di 18 anni, un chitarrista, un visual artist, un rapper. Ci piacciono le persone che hanno una vita, oltre al lavoro.

Alla fine, avere un team con tantissimi interessi diversi è un punto di forza: questa pioggia di stimoli fa in modo che nascano tanti progetti, sia lavorativi che collaterali.

Visto che siamo tutti diversi, facciamo in modo che ognuno abbia la sua personalità e valorizzi i suoi punti di forza: qui, quasi tutti insegnano (e sono liberi di farlo) in università. Dove possibile appoggiamo i progetti dei singoli professionisti.

Solo per fare un esempio, Svegliamuseo (la più grande community italiana di professionisti della comunicazione museale) è nato qui, come side project di Francesca.

Teniamo molto alle persone che lavorano con noi e stiamo ragionando su un modello di compensation che possa coinvolgere il più possibile tutti i nostri collaboratori (per esempio, ci piace molto il modello Open Equity di Buffer).

Cosa ci riserva il futuro?

Ci siamo accorti che i social network sono diventati totalmente inutili, in moltissimi casi.

Stiamo cercando di dare un senso a questi strumenti.

Nel campo del retail possiamo utilizzare strumenti agili e immediati come Instagram e WhatsApp per aumentare il traffico e le vendite in store, in modo misurabile. Con alcuni dei nostri clienti stiamo lavorando in questa direzione.

Stiamo progettando di espanderci verso oriente, pensiamo a un business internazionale con base in Italia. Abbiamo contatti con la Thailandia e con il Sud Korea. La media azienda italiana, specie se food o fashion, è molto richiesta a oriente. Inoltre, a nostro avviso molti prodotti orientali avrebbero successo in Europa. Stiamo costruendo una rete di relazioni che ci permetta di seguire questo tipo di progetti.

Vorremmo essere un punto di riferimento per tutti i giovani del settore e per tutti quelli che hanno idee da condividere e le vogliono portare avanti.

Se anche tu credi che un nuovo tipo di azienda sia possibile anche in questo paese e se ti piace conoscere il mondo, mandaci una mail. Lo stiamo facendo.

Alessandro e Fabrizio

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Ecco perché una vacanza in California è meglio di 10 libri di marketing

Durante queste vacanze sono stato in California e mi è sembrato di passeggiare all’interno di un manuale di marketing.  In un paese dove tutto è marketing, tutto è comunicazione, un viaggio diventa un ripasso dei principali capitoli.

Ho preso qualche appunto, cose semplici – scontate forse –  ma che se messe in pratica anche dalle aziende nostrane, farebbero saltare l’economia del bel paese nell’iperspazio.

Detto questo torniamo tra i banchi e impariamo a comunicare dagli americani (o almeno a capire cosa funziona da loro).

 1. Posizionamento, Valori e Auto-affermazione

In America non hanno paura di affermare i propri valori, le proprie origini o le proprie qualità. Tutti i prodotti (o servizi) sono i migliori rispetto a tutti gli altri. In altre parole non hanno paura a vantarsi. Questa scelta è espressa in copywriting molto forti:
  • L’università dice –“Vieni per una laurea, resti qui per il tuo sogno”
  • Il negozio di giocattoli – “Meglio sgridare per 5 minuti i tuoi figli ora, siamo a 5 min da qui.”
  • Il the preso nel piccolo cafè – “The verde, ma con vero succo di limone, tutto è organic!”
  • La vodka di San Francisco dice –“Nata in San Francisco dove il progresso è naturale” oppure “Brinda al progresso di San Francisco”
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  • Il ristorante per il brunch, il bbq, la birreria etc.. – “Il miglior BBQ in San Francisco” oppure “Serviamo la migliore colazione di San Francisco” 
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  • La pizzeria dice – “Una pizza come nessun’altra in città, forse anche di Napoli”
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Cosa ho ripassato in questa lezione di marketing: Comunica i tuoi valori in modo forte.

 2. Branding & identity

Il Branding è tutto, ovunque e comunque. Gli americani sanno bene che un marchio non è solo un logo ma è tutta l’esperienza e il ricordo di un’organizzazione.
Dal ristorante dove mangi al piccolo negozio di cioccolatini, tutto ha un’identità perfetta e tutto cerca di entrare con forza nei tuoi ricordi.
  • Il panificio ha font grossi e packaging di carta e di latta rossi,  mentre sei in coda vedi le persone che fanno il pane e preparano il tuo pranzo.
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  • Il micro-birrificio dalle tovaglie di carta ruvida, i mobili in legno, mattoni in vista e dal vecchio vassoio di metallo sul quale ti serve gli hamburger sul manu ha scritto: “The Perfect Pour. Our beer is served at its optimal drinking temperature via several variable storage and delivery systems. Our custom “on the fly” gas blending system is one of only a handful in the world and allows us precise control over every beer. What does this mean to you? Your beer will be served at the proper temperature to ensure all the flavors you’d miss with a standard system are there for you to enjoy from the first sip.” In altre parole: sanno regolare la pressione delle spine.
  • La compagnia area non ti vende un viaggio low-cost, ti vende libertà. “Questo aereo è dedicato a te, nostro leale cliente. Tu sei la ragione per la quale diamo all’America la libertà di volare”. Manca solo Capitan America che stappa un Jack Daniels con i denti e ti strizza l’occhiolino.
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  • Il salumiere italiano (che in realtà italiano non è) è il mio preferito: vende solo insaccati italiani, di quelli insoliti e difficili da trovare. La gente di San Francisco fa la coda per comprare: nduja, ciccioli o finocchiona. Il packging è di carta, il logo hipster e il naming stupendo per chi vuole spendere un sacco di soldi in una nduja prodotta nelle Silicon Valley. Si chiama Boccalone. (#epic hai vinto il mio premio-comunicazione-vacanza)

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Cosa ho ripassato in questa lezione di marketing: Il branding è il ricordo di tutta l’organizzazione. Fallo bello!

3. Segmentare il mercato e ampliare l’offerta

Quando compri qualcosa c’è sempre una scelta da fare, solitamente limitata a tre strade: servizio base, intermedio e plus.
  • L’albergo a Las Vegas offre il check-in normale con un’ora di coda, aperto solo dalle 15 alle 18, l’early check-in a pagamento prima delle 15. Oppure il misterioso diamond check-in nascosto da due grandi porte di vetro e oro.
  • La bibita del parco dei divertimenti costa 5$ ma con soli 15$ puoi averla nella boraccia del tuo personaggio preferito e con 1$ in più hai il free refill tutto il giorno.
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Cosa ho ripassato in questa lezione di marketing: Riduci (o amplia) l’offerta a 3 possibilità, così ti assicuri che almeno l’intermedia venga considerata. (e poi davvero non vorresti succhiare della coca-cola dalla testa di un Minions??!)

4. Retail

I retail sono laboratori artigiani che mettono in mostra tutta l’artigianalità e la storia dietro a un prodotto.
  • Alla cioccolateria puoi mangiare cioccolato, comprare e  vedere cucinare diversi tipo di dolci.
  • Il museo a cielo aperto di barche al porto ti permette di visitare imbarcazioni dei primi del ‘900, te le racconta attraverso app o chiamandoti al cellulare. In più ti fa vedere il lavoro dei restauratori/falegnami alle prese con l’ultimo restauro.
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  • Da Levis puoi comprare un paio di jeans, e farti sistemare l’orlo, nell’angolo sartoriale all’entrata del negozio. Sistemare un orlo e mettere una toppa colorata su un jeans costa il doppio del jeans stesso.
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Cosa ho ripassato in questa lezione di marketing: Il retail oltre a vendere deve raccontare. 

5.  Messaggi Semplici

La comunicazione è semplice e diretta, niente giri di parole.
  • Il ristorante che ti cucina il granchio dice: -“MANGIA IL GRANCHIO”.
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  • Il negozio di oggetti usati dice: – “L’usato è il nuovo nuovo.”
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Cosa ho ripassato in questa lezione di marketing: Comunica in modo semplice e diretto.

6. Coda coda coda

La cultura della coda è impressionante, sbalorditiva. È ovunque. Difficilmente si prenota o si riserva un tavolo, vai sul posto e fai la coda. La gente non sembra essere arrabbiata e nemmeno sembra sforzarsi di dover tollerare supplizi di ore di attesa. Guide e blog online si spingono oltre e considerando la coda sininimo di qualità e storicità di un servizio.
Dalla coda nascono nuovi servizi: puoi saltare la coda e pagare questa possibilità, acquistare cibo oppure bevande durante l’attesa.
In altre parole la coda è il primo segnale di scarsità del bene/servizio e poco importa se le code a volte sono totalmente inutili e non necessarie.
Qui la coda fuori dall’Apple store, di Domenica non di saldi a negozio chiuso.

Cosa ho ripassato in questa lezione di marketing: “Se c’è coda è perché piace anche a altre persone. vado sul sicuro!”